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letteratura

classe 5 > ITALIANO

Giovanni Verga - Libertà


Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e
cominciarono a gridare in piazza: - Viva la libertà! -
Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini,
davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che
luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
- A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! - Innanzi a tutti gli altri una
strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. - A te, prete del diavolo! che ci
hai succhiato l'anima! - A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del
sangue del povero! - A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te,
guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! -
E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! - Ai
galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! -
Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia
insanguinata contro il marciapiede. - Perché? perché mi ammazzate? - Anche tu! al diavolo! - Un
monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. - Abbasso i cappelli! Viva la
libertà! - Te'! tu pure! - Al reverendo che predicava l'inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal
dir messa, coll'ostia consacrata nel pancione. - Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! -
La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l'inverno
della fame, e rimpieva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a
qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui
ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non
pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. - Il figliuolo della Signora, che era accorso per
vedere cosa fosse - lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia - don Paolo, il quale tornava
dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino
vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la
vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa
minestra che era nelle bisacce del marito. - Paolo! Paolo! - Il primo lo colse nella spalla con un
colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio
sanguinante al martello.
Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come
l'oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di
strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: - Neddu! Neddu! - Neddu fuggiva, dal terrore,
cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch'esso su di un
ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla
guancia e glie l'aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. - Non
voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; - strappava il cuore! - Il taglialegna,
dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere
di cinquant'anni - e tremava come una foglia. - Un altro gridò: - Bah! egli sarebbe stato notaio,
anche lui! -
Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto.
Tutti! tutti i cappelli! - Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la
collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando
l'ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. - Tu che venivi a pregare il buon Dio
colla veste di seta! - Tu che avevi a schifo d'inginocchiarti accanto alla povera gente! - Te'! Te'! -
Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle
facce insanguinate! e quanti anelli d'oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure!
La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle
schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c'era la pena di morte chi tenesse armi da
fuoco. - Viva la libertà! - E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i
feriti. Lasciarono stare i campieri. - I campieri dopo! - I campieri dopo! - Prima volevano le carni
della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante
al seno, scarmigliata - e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni,
avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche
anch'esso, puntellava l'uscio colle sue mani tremanti, gridando: - Mamà! mamà! - Al primo urto gli
rovesciarono l'uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua
madre s'era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano
perché non gridasse, pazza. L'altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse
avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò
lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il
carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L'altro fratello non vide niente; non vedeva
altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva
addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire
nel mucchio e luccicavano in aria.
E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna,
continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria,
come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno
fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il
lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare
secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre
delle case deserte.
Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s'era
rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si
guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il
vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. - Senza messa non potevano starci, un
giorno di domenica, come i cani! - Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove
andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il
fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.
E come l'ombra s'impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra
due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i
campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell'Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi
e quei campi. Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e
guardava in cagnesco il vicino. - Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! - Quel Nino
Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! - Se non c'era
più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a
raffa! - E se tu ti mangi la tua parte all'osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? - Ladro tu e
ladro io -. Ora che c'era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come
quella dei galantuomini! - Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.
Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si
vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe
bastato rotolare dall'alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne
strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte,
colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e
quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.
Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La
mattina, prima dell'alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a
cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l'uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero
cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli
aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia.
Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in
fila come i mortaletti della festa.
Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule,
disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel
refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo - ahi! - ogni volta che mutavano
lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a
coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le
lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in
mezzo alle biade color d'oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada
faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto
e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano
vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i
poveretti divenivano sempre più gialli in quell'ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni
lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne
ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere
che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo costava due
soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a
passare una notte sull'uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono,
prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe
più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non
potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i
galantuomini. Fecero la pace. L'orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una
bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in
tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all'uscire dal carcere, egli ripeteva:
- Sta tranquilla che non ne esce più -. Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche
vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere
gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di
conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all'aria ci vanno i cenci.
Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli
accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al
tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a
una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia - ché capponi davvero
si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s'era
imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. - Voi come vi
chiamate? - E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati
armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la
schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I
giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia
erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba,
o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati dei
galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di
leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano
pallidi, e cogli occhi fissi su quell'uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava
colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: - Sul mio onore e sulla mia
coscienza!...
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: - Dove mi conducete? - In
galera? - O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la
libertà!... -


L'inchiesta in Sicilia.






Leopoldo Franchetti (1847-1917) e Sidney Sonnino (1847-1922) sono due studiosi positivisti. Professori universitari ed esponenti della Destra storica (Sonnino sarà anche primo ministro nel 1906 e nel biennio 1909-10), avevano fondato nel 1878, a Firenze, la "Rassegna Settimanale", a cui collaborò Verga. Franchetti e Sonnino intendono far conoscere le condizioni di vita del Meridione e diffondere la consapevolezza di un problema sociale (le cosiddetta "questione meridionale") che andava risolto, e riequilibrare uno sviluppo economico che sacrificava le campagne e l'economia del Sud, ancora ignoto alla maggior parte degli italiani del Nord. Franchetti e Sonnino collaborano allo studio della "questione meridionale" attraverso un libro inchiesta, noto come Inchiesta in Sicilia ma il cui titolo vero è La Sicilia nel 1876.
Gli autori vi descrivono le cause della decadenza economica siciliana: la corruzione delle amministrazioni comunali, il cancro dell'usura che rovina la piccola proprietà contadina, la dissennata politica fiscale che colpiva solo i poveri senza toccare i proprietari, il problema della leva militare.
Nell' Inchiesta in Sicilia si dedica particolare attenzione al lavoro dei ragazzi, i cosiddetti carusi, impiegati come garzoni nel duro lavoro nelle miniere di zolfo.
Il lavoro di questi fanciulli consisteva nel trasporto sulla schiena del minerale in sacchi o ceste, dalla galleria dove veniva scavato dal picconiere, fino al luogo dove all'aria aperta si faceva la basterella (riunione di più casse) delle casse dei diversi picconieri, prima di riempire il calcarone (fornace).
Ogni picconiere impiegava in media da due a quattro ragazzi, la cui età variava dai sette agli undici anni. I fanciulli lavoravano sotto terra da otto a dieci ore al giorno.
Il guadagno giornaliero di un ragazzo di otto anni era di £ 0,50,dei più piccoli e deboli era di £ 0,35. Questi poveri carusi uscivano dalle bocche delle gallerie dove la temperatura era caldissima, grondando sudore e contratti sotto i gravissimi pesi che portavano, e uscivano all'aria aperta, dove dovevano percorrere un'altra cinquantina di metri, esposti a un vento ghiaccio.
Altre schiere di fanciulli lavoravano all'aria aperta trasportando il minerale dalla basterella al calcarone.
La triste condizione dei carusi ci è tristemente nota anche attraverso le pagine letterarie che lo scrittore siciliano Giovanni Verga dedicò, sempre nell'Ottocento, a uno di loro, Rosso Malpelo, protagonista dell'omonima novella.





Giovanni Verga - Vita dei campi (1880)

L'amante di Gramigna








A Salvatore Farina.
Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l'abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi - interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l'ho raccolto pei viottoli dei campi, press'a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l'efficacia dell'essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l'argomento di un racconto, e che l'analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d'arrivo; e per te basterà, - e un giorno forse basterà per tutti.
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l'effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all'arte dell'avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell'uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell'immaginazione, che nell'avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?
Quando nel romanzo l'affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l'armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l'impronta dell'avvenimento reale, l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d'origine.



Parecchi anni or sono, laggiù lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certo Gramigna, se non erro, un nome maledetto come l'erba che lo porta, il quale da un capo all'altro della provincia s'era lasciato dietro il terrore della sua fama. Carabinieri, soldati, e militi a cavallo, lo inseguivano da due mesi, senza esser riesciti a mettergli le unghie addosso: era solo, ma valeva per dieci, e la mala pianta minacciava di moltiplicarsi. Per giunta si approssimava il tempo della messe, tutta la raccolta dell'annata in man di Dio, ché i proprietarii non s'arrischiavano a uscir dal paese pel timor di Gramigna; sicché le lagnanze erano generali. Il prefetto fece chiamare tutti quei signori della questura, dei carabinieri, dei compagni d'armi, e subito in moto pattuglie, squadriglie, vedette per ogni fossato, e dietro ogni muricciolo: se lo cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una provincia, di giorno, di notte, a piedi, a cavallo, col telegrafo. Gramigna sgusciava loro di mano, o rispondeva a schioppettate, se gli camminavano un po' troppo sulle calcagna. Nelle campagne, nei villaggi, per le fattorie, sotto le frasche delle osterie, nei luoghi di ritrovo, non si parlava d'altro che di lui, di Gramigna, di quella caccia accanita, di quella fuga disperata. I cavalli dei carabinieri cascavano stanchi morti; i compagni d'armi si buttavano rifiniti per terra, in tutte le stalle; le pattuglie dormivano all'impiedi; egli solo, Gramigna, non era stanco mai, non dormiva mai, combatteva sempre, s'arrampicava sui precipizi, strisciava fra le messi, correva carponi nel folto dei fichidindia, sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti. Per duecento miglia all'intorno, correva la leggenda delle sue gesta, del suo coraggio, della sua forza, di quella lotta disperata, lui solo contro mille, stanco, affamato, arso dalla sete, nella pianura immensa, arsa, sotto il sole di giugno.
Peppa, una delle più belle ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo compare Finu "candela di sego" che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande e bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza piegare le reni.
La madre di Peppa piangeva dalla contentezza per la gran fortuna toccata alla figliuola, e passava il tempo a voltare e rivoltare nel baule il corredo della sposa, "tutto di roba bianca a quattro" come quella di una regina, e orecchini che le arrivavano alle spalle, e anelli d'oro per le dieci dita delle mani: dell'oro ne aveva quanto ne poteva avere Santa Margherita, e dovevano sposarsi giusto per Santa Margherita, che cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno. "Candela di sego" nel tornare ogni sera dalla campagna, lasciava la mula all'uscio della Peppa, e veniva a dirle che i seminati erano un incanto, se Gramigna non vi appiccava il fuoco, e il graticcio di contro al letto non sarebbe bastato a contenere tutto il grano della raccolta, che gli pareva mill'anni di condursi la sposa in casa, in groppa alla mula baia. Ma Peppa un bel giorno gli disse:
- La vostra mula lasciatela stare, perché non voglio maritarmi -.
Figurati il putiferio! La vecchia si strappava i capelli, "Candela di sego" era rimasto a bocca aperta.
Che è, che non è, Peppa s'era scaldata la testa per Gramigna, senza conoscerlo neppure. Quello sì, ch'era un uomo! - Che ne sai? - Dove l'hai visto? - Nulla. Peppa non rispondeva neppure, colla testa bassa, la faccia dura, senza pietà per la mamma che faceva come una pazza, coi capelli grigi al vento, e pareva una strega. - Ah! quel demonio è venuto sin qui a stregarmi la mia figliuola! -
Le comari che avevano invidiato a Peppa il seminato prosperoso, la mula baia, e il bel giovanotto che portava lo stendardo di Santa Margherita senza piegar le reni, andavano dicendo ogni sorta di brutte storie, che Gramigna veniva a trovare la ragazza di notte in cucina, e che glielo avevano visto nascosto sotto il letto. La povera madre teneva accesa una lampada alle anime del purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore colla stola, onde scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso.
Però ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma invece pensava sempre a lui; lo vedeva in sogno, la notte, e alla mattina si levava colle labbra arse, assetata anch'essa, come lui.
Allora la vecchia la chiuse in casa, perché non sentisse più parlare di Gramigna, e tappò tutte le fessure dell'uscio con immagini di santi.
Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada, dietro le immagini benedette, e si faceva pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l'inferno nella faccia.
Finalmente si sentì che avevano scovato Gramigna nei fichidindia di Palagonia.
- Ha fatto due ore di fuoco! - dicevano; - c'è un carabiniere morto, e più di tre compagni d'armi feriti. Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate che stavolta hanno trovato un lago di sangue dove egli era stato -.
Una notte Peppa si fece la croce dinanzi al capezzale della vecchia e fuggì dalla finestra.
Gramigna era proprio nei fichidindia di Palagonia - non avevano potuto scovarlo in quel forteto da conigli - lacero, insanguinato, pallido per due giorni di fame, arso dalla febbre, e colla carabina spianata.
Come la vide venire, risoluta, in mezzo alle macchie fitte, nel fosco chiarore dell'alba, ci pensò un momento, se dovesse lasciar partire il colpo.
- Che vuoi? - le chiese. - Che vieni a far qui?
Ella non rispose, guardandolo fisso.
- Vattene! - diss'egli, - vattene, finché t'aiuta Cristo!
- Adesso non posso più tornare a casa, - rispose lei; - la strada è tutta piena di soldati.
- Cosa m'importa? Vattene! -
E la prese di mira colla carabina. Come essa non si moveva, Gramigna, sbalordito, le andò coi pugni addosso:
- Dunque?... Sei pazza?... O sei qualche spia?
- No, - diss'ella, - no!
- Bene, va a prendermi un fiasco d'acqua, laggiù nel torrente, quand'è così -.
Peppa andò senza dir nulla, e quando Gramigna udì le fucilate si mise a sghignazzare, e disse fra sé:
- Queste erano per me -.
Ma poco dopo vide ritornare la ragazza col fiasco in mano, lacera e insanguinata. Egli le si buttò addosso, assetato, e poich'ebbe bevuto da mancargli il fiato, le disse infine:
- Vuoi venire con me?
- Sì, - accennò ella col capo avidamente, - sì -.
E lo seguì per valli e monti, affamata, seminuda, correndo spesso a cercargli un fiasco d'acqua o un tozzo di pane a rischio della vita. Se tornava colle mani vuote, in mezzo alle fucilate, il suo amante, divorato dalla fame e dalla sete, la batteva.
Una notte c'era la luna, e si udivano latrare i cani, lontano, nella pianura. Gramigna balzò in piedi a un tratto, e le disse:
- Tu resta qui, o t'ammazzo com'è vero Dio! -
Lei addossata alla rupe, in fondo al burrone, lui invece a correre tra i fichidindia. Però gli altri, più furbi, gli venivano incontro giusto da quella parte.
- Ferma! ferma! -
E le schioppettate fioccarono. Peppa, che tremava solo per lui, se lo vide tornare ferito, che si strascinava appena, e si buttava carponi per ricaricare la carabina.
- È finita! - disse lui. - Ora mi prendono -; e aveva la schiuma alla bocca, gli occhi lucenti come quelli del lupo.
Appena cadde sui rami secchi come un fascio di legna, i compagni d'armi gli furono addosso tutti in una volta.
Il giorno dopo lo strascinarono per le vie del villaggio, su di un carro, tutto lacero e sanguinoso. La gente gli si accalcava intorno per vederlo; e la sua amante, anche lei, ammanettata, come una ladra, lei che ci aveva dell'oro quanto Santa Margherita!
La povera madre di Peppa dovette vendere "tutta la roba bianca" del corredo, e gli orecchini d'oro, e gli anelli per le dieci dita , onde pagare gli avvocati di sua figlia , e tirarsela di nuovo in casa, povera, malata, svergognata, e col figlio di Gramigna in collo. In paese nessuno la vide più mai. Stava rincantucciata nella cucina come una bestia feroce, e ne uscì soltanto allorché la sua vecchia fu morta di stenti, e si dovette vendere la casa.
Allora, di notte, se ne andò via dal paese, lasciando il figliuolo ai trovatelli, senza voltarsi indietro neppure, e se ne venne alla città dove le avevano detto ch'era in carcere Gramigna. Gironzava intorno a quel gran fabbricato tetro, guardando le inferriate, cercando dove potesse esser lui, cogli sbirri alle calcagna, insultata e scacciata ad ogni passo.
Finalmente seppe che il suo amante non era più lì, l'avevano condotto via, di là del mare, ammanettato e colla sporta al collo. Che poteva fare? Rimase dov'era, a buscarsi il pane rendendo qualche servizio ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella stessa di quel gran fabbricato tetro e silenzioso. Verso i carabinieri poi, che le avevano preso Gramigna nel folto dei fichidindia, sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l'ammirazione bruta della forza, ed era sempre per la caserma, spazzando i cameroni e lustrando gli stivali, tanto che la chiamavano "lo strofinacciolo della caserma". Soltanto quando partivano per qualche spedizione rischiosa, e li vedeva caricare le armi, diventava pallida e pensava a Gramigna.


GABRIELE D'ANNUNZIO - IL PIACERE (1888)
"Attendendo Elena" (libro I, cap. I)



" L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando ; e dalle due piazze il rumorio confuso e continuo, salendo alla Trinità dei Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.
Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch'esalavan ne' vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d'un giglio adamantino , a similitudine di quelle che sorgono dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese.Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.
Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un'amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d'amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d'istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d'inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri di Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d'argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto. […]
Ma il momento si approssimava. L'orologio della Trinità dei Monti suonò le tre e tre quarti. Egli pensò, con una trepidazione profonda: " Fra pochi minuti Elena sarà qui. Quale atto io farò accogliendola? Quali parole io le dirò?".
L'ansia di lui era verace e l'amore per quella donna era in lui rinato veracemente, ma la espressione verbale e plastica dei sentimenti in lui era sempre così artificiosa, così lontana dalla semplicità e dalla sincerità, che egli ricorreva per abitudine alla preparazione anche ne' più gravi sommovimenti dell'animo.
Cercò d'imaginare la scena, compose alcune frasi, scelse con gli occhi intorno il luogo più propizio al colloquio. Poi anche si levò per vedere in uno specchio se il suo volto era pallido, se rispondeva alla circostanza. E il suo sguardo, nello specchio, si fermò alle tempie, all'attaccatura dei capelli, dove Elena allora soleva mettere un bacio delicato. Aprì le labbra per mirare la perfetta lucentezza dei denti e la freschezza delle gengive, ricordando che un tempo ad Elena piaceva in lui sopra tutto la bocca. La sua vanità di giovane viziato ed effeminato non trascurava mai nell'amore alcun effetto di grazia o di forma. Egli sapeva, nell'esercizio dell'amore, trarre dalla sua bellezza il maggior possibile godimento. Questa felice attitudine del corpo e questa acuta ricerca del piacere appunto gli cattivavano l'animo delle donne. Egli aveva in sé qualche cosa di Don Giovanni e di Cherubino: sapeva essere l'uomo d'una notte erculea e l'amante timido, candido, quasi verginale. La ragione del suo potere stava in questo: che, nell'arte d'amare, egli non aveva ripugnanza ad alcuna finzione, ad alcuna falsità, ad alcuna menzogna. Gran parte della sua forza era nell'ipocrisia.
"Quale atto io farò accogliendola? Quali parole io le dirò?". Egli si smarriva, mentre i minuti fuggivano. Egli non sapeva già con quali disposizioni Elena sarebbe venuta".










                                                                                                                                                                                                                     
















GIOVANNI PASCOLI




LUIGI PIRANDELLO - Figlio del Cavusu


... Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti. Colà la mia famiglia si era rifugiata dal terribile colera del 1867, che infierí fortemente nella Sicilia. Quella campagna, però, porta scritto l'appellativo di Lina, messo da inio padre in ricordo della prima figlia appena nata e che è maggiore di me di un anno; ma nessuno si è adattato al nuovo nome, e quella campagna continua, per i piú, a chiamarsi Càvusu, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Xáos.
Mio padre è proprietario di una ricca miniera di zolfo, quindi avrebbe voluto che io mi dedicassi agli studii di commercio. Fui collocato perciò nelle scuole tecniche di Girgenti; ma tutti quei numeri, tutte quelle regole, tutto quel rigido ordine matematico, ripugnavano al mio animo impaziente ed avido di completa libertà. Avvenne perciò che dopo compiuta la seconda classe tecnica e riescito, non so come né perché, a superare gli esami di luglio, dissi a mio padre che ero stato rimandato nell'aritmetica; non poter quindi recarmi con la famiglia in campagna ed essere costretto a passare le vacanze a Girgenti per istudiare e riparare il mancato esame.
Mio padre lasciò correre; ed il danaro che doveva spendersi per la ipotetica lezione di matematica, serví invece per una vera lezione di lingua latina, perché io desideravo tanto di essere ammesso in ginnasio ed anche di saltare la prima classe. Tutto andò bene, secondo i miei desiderii e ad ottobre riuscii ad ottenere la regolare ammissione nella seconda classe ginnasiale. Il babbo non guardava tanto pel sottile in fatto dei miei studii: seppe che non perdevo un anno, fu contento, lontano le mille miglia dall'immaginare la mia marachella.
Frequentai i primi due mesi nel ginnasio senza alcuna preoccupazione. Ma ben presto fui tradito da una circostanza da nulla. Se mio padre non si occupava molto pel minuto del progresso dei miei studii, doveva, purtroppo, firmare la pagella scolastica ogni due mesi. Ma io non ne avevo alcuna, perché al ginnasio non se ne davano, come alle tecniche; sicché... riuscii a passarla liscia, dopo il primo bimestre, inventando spudoratamente cervellotiche ragioni che il babbo, alla meglio, accettò per buone.
Ma ben presto stava per iscadere il secondo bimestre: e innanzi all'idea di essere scoperto e giudicato da mio padre, affettuoso in genere, quanto terribile nell'ira, fui preso da un tale spavento, che, dopo aver proposto e scartato varie soluzioni, non trovai altro rimedio che fuggire da casa, fuggire da Girgenti.
Un amico di nostra famiglia, un lombardo di Como, doveva tornare alla sua città con un grande carico di zolfo per via di mare. Io lo pregai di condurmi con sé, tanto piú che egli ci aveva di molto esaltate le bellezze dell'Italia settentrionale, del lago di Corno, del duomo di Milano e via dicendo. Da prima egli condiscese ben volentieri; ma, quando io gli manifestai la necessità, per me assoluta, che questo mio progetto dovesse tenersi completamente celato a mio padre, non ne volle piú sapere e partí per Palermo dove aveva noleggiato un vapore per caricarvi la sua merce e, con quello, andare a Genova, per poi, di là, recarsi con la ferrovia a Corno.
Io, però, non mi smarrii e ne inventai un'altra. Racimolai il danaro necessario pel biglietto da Girgenti a Palermo; insalutato ospite fuggii di casa, e giunsi alla capitale dell'isola il giorno stesso in cui quel signore doveva imbarcarsi e partire. Lo trovai, ingarbugliai un bel discorso, di cui la sostanza era che avevo potuto finalmente ottenere il sospirato consenso paterno; l'amico mangiò la foglia ed io partii con lui glorioso e trionfante.
Al principio tutto andò benone; ma a metà del viaggio marittimo, fui preso da così straziante rimorso pel dolore che avrei cagionato ai miei, specialmente a mia madre, che non potei resistere piú e finii col confessare ogni cosa a quel signore: e solo mi parve di essermi liberato da una grave mole che mi pesasse sulla coscienza quando, arrivati a Genova, si telegrafò a mio padre tutto quanto era accaduto. Chi può ridire la mia contentezza quando, con la risposta, mio padre mi mandò anche il suo consenso perché continuassi il corso ginnasiale in Como? Quivi stabilitomi, frequentai dipoi regolarmente anche la terza ginnasiale.
Senonché in seguito, d'accordo coi miei genitori, tornai in Sicilia e compii gli studi secondarii a Palermo; dove anzi incominciai pure quelli universitarii. Distaccatomi oramai dalla famiglia, passai a Roma; e quivi, alla Sapienza, frequentai le lezioni del secondo anno della facoltà di lettere, dove non incontrai fortuna, perché ebbi un contrasto con l'insegnante di lingua e letteratura latina, il professore Occioni, mentre mi aveva preso a ben volere il professore Monaci, docente di filologia romanza. Costui, che aveva compreso il mio carattere tenace per quanto possa parer bizzarro, mi consigliò di terminare l'università in Germania e troncare cosí ogni spiacevole occasione di urto con il detto professore, che era anche preside della facoltà di lettere. Mi decisi pertanto di recarmi nella dotta Germania e scelsi la università di Bonn, nella quale città e nel quale centro di studii trovai un ambiente molto adatto al mio temperamento e alle mie ricerche letterarie e filosofiche. Presi nel marzo del 1891 la laurea di dottore in filologia romanza con grande soddisfazione dell'indimenticabile mio maestro romano Ernesto Monaci ed il seguente anno scolastico restai ancora a Bonn in qualità di lecior di lingua italiana nell'università. Ma la nostalgia mi avvinceva e provavo uno struggente desiderio della famiglia, della Sicilia, di Roma e quest'anno non ho saputo resistere e son tornato alla mia bella Italia anche senza sapere, come realmente non so, che cosa sarà di me, né che cosa farò...

Monte Cavo, 15 agosto 1893


LUIGI PIRANDELLO


CIAULA SCOPRE LA LUNA
da
" Novelle per un anno "


Pirandello descrive l’ambiente tipico della zolfara siciliana dove la condizione dei lavoratori è di sfruttamento. L’aspetto su cui si concentra di più è l’analisi interiore degli individui. L’ambiente delle cave è tipico delle sue novelle perché sono il simbolo della miseria. All’interno di esse c’è una gerarchia composta da persone di basso ceto e Cacciagallina non è un galantuomo e al di fuori della miniera non conta nulla. Pirandello, nelle sue novelle, è sempre impersonale quindi fa trasparire le sue idee dalla bocca di altri.


I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare senz'aver finito d'estrarre le tante casse di zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar la calcara. Cacciagallina, il soprastante, s'affierò contr'essi, con la rivoltella in pugno, davanti la buca della Cace, per impedire che ne uscissero.
- Corpo di... sangue di... indietro tutti, giù tutti di nuovo alle cave, a buttar sangue fino all'alba, o faccio fuoco!
- Bum! - fece uno dal fondo della buca. - Bum! - echeggiarono parecchi altri; e con risa e bestemmie e urli di scherno fecero impeto, e chi dando una gomitata, chi una spallata, passarono tutti, meno uno.
Chi? Zi' Scarda, si sa, quel povero cieco d'un occhio, sul quale Cacciagallina poteva fare bene il gradasso. Gesù, che spavento! Gli si scagliò addosso, che neanche un leone; lo agguantò per il petto e, quasi avesse in pugno anche gli altri, gli urlò in faccia, scrollandolo furiosamente:
- Indietro tutti, vi dico, canaglia! Giù tutti alle cave, o faccio un macello!
Zi' Scarda si lasciò scrollare pacificamente. Doveva pur prendersi uno sfogo, quel povero galantuomo, ed era naturale se lo prendesse su lui che, vecchio com'era, poteva offrirglielo senza ribellarsi. Del resto, aveva anche lui, a sua volta, sotto di sé qualcuno più debole, sul quale rifarsi più tardi: Ciàula, il suo caruso.
Quegli altri... eccoli là, s'allontanavano giù per la stradetta che conduceva a Comitini; ridevano e gridavano:
- Ecco, sì! tienti forte codesto, Cacciagallì! Te lo riempirà lui il calcherone per domani!
- Gioventù! sospirò con uno squallido sorriso d'indulgenza zi' Scarda a Cacciagallina.
E, ancora agguantato per il petto, piegò la testa da un lato, stiracchiò verso il lato opposto il labbro inferiore, e rimase così per un pezzo, come in attesa.

Era una smorfia a Cacciagallina? o si burlava della gioventù di quei compagni là?
Veramente, tra gli aspetti di quei luoghi, strideva quella loro allegria, quella velleità di baldanza giovanile. Nelle dure facce quasi spente dal bujo crudo delle cave sotterranee, nel corpo sfiancato dalla fatica quotidiana, nelle vesti strappate, avevano il livido squallore di quelle terre senza un filo d'erba, sforacchiate dalle zolfare, come da tanti enormi formicai.
Ma no: zi' Scarda, fisso in quel suo strano atteggiamento, non si burlava di loro, né faceva una smorfia a Cacciagallina. Quello era il versaccio solito, con cui, non senza stento, si deduceva pian piano in bocca la grossa lagrima, che di tratto in tratto gli colava dall'altro occhio, da quello buono.
Aveva preso gusto a quel saporino di sale, e non se ne lasciava scappar via neppur una.
Poco: una goccia, di tanto in tanto; ma buttato dalla mattina alla sera laggiù, duecento e più metri sottoterra, col piccone in mano, a ogni colpo gli strappava come un ruglio di rabbia dal petto, zi' Scarda aveva sempre la bocca arsa: e quella lagrima, per la sua bocca, era quel che per il naso sarebbe stato un pizzico di rapè.
Un gusto e un riposo.
Quando si sentiva l'occhio pieno, posava per un poco il piccone e, guardando la rossa fiammella fumosa, della lanterna confitta nella roccia, che alluciava nella tenebra dell'antro infernale qualche scaglietta di zolfo qua e là, o l'acciajo del paolo o della piccozza, piegava la testa da un lato, stiracchiava il labbro inferiore e stava ad aspettar che la lagrima gli colasse giù, lenta, per il solco scavato dalle precedenti.
Gli altri, chi il vizio del fumo, chi quello del vino; lui aveva il vizio della sua lagrima.
Era del sacco lacrimale malato e non di pianto, quella lagrima; ma si era bevute anche quelle di pianto, zi' Scarda, quando, quattr'anni addietro, gli era morto l'unico figliolo, per lo scoppio d'una mina, lasciandogli sette orfanelli e la nuora da mantenere. Tuttora gliene veniva giù qualcuna più salata delle altre; ed egli la riconosceva subito: scoteva il capo, allora, e mormorava un nome:
- Calicchio.
In considerazione di Calicchio morto, e anche dell'occhio perduto per lo scoppio della stessa mina, lo tenevano ancora lì a lavorare. Lavorava più e meglio di un gio­vane; ma ogni sabato sera, la paga gli era data, e per dir la verità lui stesso se la prendeva, come una carità che gli facessero: tanto che, intascandola, diceva sottovoce, quasi con vergogna:
- Dio gliene renda merito.
Perché, di regola, doveva presumersi che uno della sua età non poteva più lavorar bene.

Quando Cacciagallina alla fine lo lasciò per correre dietro agli altri e indurre con le buone maniere qualcuno a far nottata, zi' Scarda lo pregò di mandare almeno a casa uno di quelli che ritornavano al paese, ad avvertire che egli rimaneva alla zolfara e che perciò non lo aspettassero e non stessero in pensiero per lui; poi si volse attorno a chiamare il suo caruso, che aveva più di trent'anni (e poteva averne anche sette o settanta, scemo com'era); e lo chiamò col verso con cui si chiamava le cornacchie ammaestrate:
- Tè, pà! tè, pà!
Ciàula stava a rivestirsi per ritornare al paese.
Rivestirsi per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quella che un tempo era stata forse una camicia: l'unico indumento che, per modo di dire, lo coprisse durante il lavoro. Toltasi la camicia, indossava sul torace nudo, in cui si poteva­no contare a una a una tutte le costole, un panciotto bello largo e lungo, avuto in elemosina, che doveva essere stato un tempo elegantissimo e sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia, che a posarlo per terra stava ritto). Con somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei quali ciondolavano, e poi se lo mirava addosso, passandoci sopra le mani, perché veramente ancora lo stimava superiore a' suoi meriti: una galanteria. Le gambe nude, misere e sbilenche, durante quell'ammirazione, gli si accapponavano, illividite dal freddo. Se qualcuno dei compagni gli dava uno spintone e gli allungava un calcio, gridandogli: - Quanto sei bello! - egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un riso di soddisfazione, poi infilava i calzoni, che avevano più d'una finestra aperta sulle natiche e sui ginocchi: s'avvolgeva in un cappottello d'albagio tutto rappezzato, e, scalzo, imitando meravigliosamente a ogni passo il verso della cornacchia - cràh! cràh! - (per cui lo avevano soprannominato Ciàula), s'avviava al paese.
- Cràh! cràh! - rispose anche quella sera al richiamo del suo padrone; e gli si pre­sentò tutto nudo, con la sola galanteria di quel panciotto debitamente abbottonato.
- Va', va' a rispogliarti, - gli disse zi' Scarda. - Rimettiti il sacco e la camicia. Oggi per noi il Signore fa notte.
Ciàula non fiatò; restò un pezzo a guardarlo a bocca aperta, con occhi da ebete; poi si poggiò le mani sulle reni e, raggrinzando in su il naso, per lo spasimo, si stirò e disse:
- Gna bonu! (Va bene).
E andò a levarsi il panciotto.
Se non fosse stato per la stanchezza e per il bisogno del sonno, lavorare anche di notte non sarebbe stato niente, perché laggiù, tanto, era sempre notte lo stesso. Ma questo, per zi' Scarda.
Per Ciàula, no. Ciàula, con la lumierina a olio nella rimboccatura del sacco su la fronte, e schiacciata la nuca sotto il carico, andava su e giù per la lubrica scala sotterranea, erta, a scalini rotti, e su, su, affievolendo a mano a mano, con fiato mozzo, quel suo crocchiare a ogni scalino, quasi un gemito di strozzato, rivedeva a ogni salita la luce del sole. Dapprima ne rimaneva abbagliato; poi col respiro che traeva nel liberarsi del carico, gli aspetti noti delle cose circostanti gli balzavano davanti; restava, an­cora ansimante, a guardarli un poco e, senza che n'avesse chiara coscienza, se ne sentiva confortare.
Cosa strana: della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava in agguato la morte, Ciàula non aveva paura, né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in uno stagno d'acqua sulfurea: sapeva sempre dov'era; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno.
Aveva paura, invece, del bujo vano della notte.
Conosceva quello del giorno, laggiù, intramezzato da sospiri di luce, di là dall'imbuto della scala, per cui saliva tante volte al giorno, con quel suo specioso arrangolio di cornacchia strozzata. Ma il bujo della notte non lo conosceva.
Ogni sera, terminato il lavoro, ritornava al paese con zi' Scarda; e là, appena finito d'ingozzare i resti della minestra, si buttava a dormire sul saccone di paglia per terra, come un cane; e invano i ragazzi, quei sette nipoti orfani del suo padrone, lo pesta­vano per tenerlo desto e ridere della sua sciocchezza; cadeva subito in un sonno di piombo, dal quale, ogni mattina, alla punta dell'alba, soleva riscuoterlo un noto piede.
La paura che egli aveva del bujo della notte gli proveniva da quella volta che il figlio di zi' Scarda, già suo padrone, aveva avuto il ventre e il petto squarciato dallo scoppio della mina, e zi' Scarda stesso era stato preso in un occhio.
Giù nei varii posti a zolfo, si stava per levar mano, essendo già sera, quando s'era sentito il rimbombo tremendo di quella mina scoppiata. Tutti i picconieri e i carusi erano accorsi sul luogo dello scoppio; egli solo, Ciàula, atterrito, era scappato a ripa­rarsi in un antro noto soltanto a lui.
Nella furia di cacciarsi là, gli s'era infranta contro la roccia la lumierina di terracotta, e quando alla fine, dopo un tempo che non aveva potuto calcolare, era uscito dall'antro nel silenzio delle caverne tenebrose e deserte, aveva stentato a trovare a tentoni la galleria che lo conducesse alla scala; ma pure non aveva avuto paura. La paura lo aveva assalito, invece, nell'uscir dalla buca nella notte nera, vana.
S'era messo a tremare, sperduto, con un brivido per ogni vago alito indistinto nel silenzio arcano che riempiva la sterminata vacuità, ove un brulichio infinito di stelle fitte, piccolissime, non riusciva a diffondere alcuna luce.
Il bujo, ove doveva essere lume, la solitudine delle cose che restavan lì con un loro aspetto cangiato e quasi irriconoscibile, quando più nessuno le vedeva, gli avevano messo in tale subbuglio l'anima smarrita, che Ciàula s'era all'improvviso lanciato in una corsa pazza, come se qualcuno lo avesse inseguito.

Ora, ritornato giù nella buca con zi' Scarda, mentre stava ad aspettare che il carico fosse pronto, egli sentiva a mano a mano crescersi lo sgomento per quel bujo che avrebbe trovato, sbucando dalla zolfara. E più per quello, che per questo delle gallerie e della scala, rigovernava attentamente la lumierina di terracotta.
Giungevano da lontano gli stridori e i tonfi cadenzati della pompa, che non posava mai, né giorno né notte. E nella cadenza di quegli stridori e di quei tonfi s'intercalava il ruglio sordo di zi' Scarda, come se il vecchio si facesse ajutare a muovere le braccia dalla forza della macchina lontana.
Alla fine il carico fu pronto, e zi' Scarda ajutò Ciàula a disporlo e rammontarlo sul sacco attorto dietro la nuca.
A mano a mano che zi' Scarda caricava, Ciàula sentiva piegarsi, sotto, le gambe. Una, a un certo punto, prese a tremargli convulsamente così forte che, temendo di non più reggere al peso, con quel tremitìo, Ciàula gridò:
- Basta! basta!
- Che basta, carogna! - gli rispose zi' Scarda.
E seguitò a caricare.
Per un momento la paura del bujo della notte fu vinta dalla costernazione che, così caricato, e con la stanchezza che si sentiva addosso, forse non avrebbe potuto arrampicarsi fin lassù. Aveva lavorato senza pietà tutto il giorno. Non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora; ma sentiva che, proprio, non ne poteva più.
Si mosse sotto il carico enorme, che richiedeva anche uno sforzo d'equilibrio. Sì, ecco, sì, poteva muoversi, almeno finché andava in piano. Ma come sollevar quel peso, quando sarebbe cominciata la salita?
Per fortuna, quando la salita cominciò, Ciàula fu ripreso dalla paura del bujo della notte, a cui tra poco si sarebbe affacciato.
Attraversando le gallerie, quella sera, non gli era venuto il solito verso della cor­nacchia, ma un gemito raschiato, protratto. Ora, su per la scala, anche questo gemito gli venne meno, arrestato dallo sgomento del silenzio nero che avrebbe trovato nella impalpabile vacuità di fuori.
La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all'ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto.
Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava di sopra, e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva su, su, su, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassù lassù si apriva come un occhio chiaro, d'una deliziosa chiarità d'argento.
Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
Possibile?
Restò - appena sbucato all'aperto - sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d'argento.
Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos'era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C'era la Luna! la Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell'averla scoperta, là, mentr'ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.

La distanza dal Verismo

L'ambiente della zolfara, la descrizione del lavoro degli operai e la precisa rappresentazione della realtà umile dei minatori farebbero intendere che Pirandello riprenda in tutto e per tutto i principi del Verismo. In realtà non è così, e ciò è evidente se si paragonano Ciàula e Rosso Malpelo, protagonista di un'omonima novella di Giovanni Verga. Ciàula è un personaggio che vive ad un livello primitivo e animalesco, senza avere una chiara coscienza di ciò che gli accade intorno; Rosso Malpelo, pur nella sua condizione difficile, riesce ad elevarsi oltre i meccanismi sociali e a comprendere quale sia la legge dominante nella vita: quella della sopravvivenza, per cui i più deboli verranno sempre schiacciati e vinti dai più potenti. Rosso diventa così un filosofo, proprio perché, pur avendo capito come funziona il mondo, egli ha compreso anche che tale meccanismo è immodificabile. Così, mentre per Verga l'importanza della narrazione è orientata verso la precisa descrizione della realtà e delle sue leggi, Pirandello dà un'importanza primaria alle sensazioni confuse e alle paure innate di Ciàula, volendo egli descrivere un'esperienza completamente irrazionale. Lo stesso apparire della Luna viene considerato da alcuni critici una teofanìa, ossia l'apparizione di una divinità, sempre a simboleggiare l'atmosfera arcana che pervade tutto il finale della novella.


LA CARRIOLA
da "Novelle per un anno"


La carriola è un gioco fanciullesco tra due bambini, mediante il quale uno prende per i piedi l'altro, e il secondo è costretto a camminare sulle mani, appunto come se il primo stesse trasportando una carriola.
E' un gioco d'infanzia, che Pirandello avrà fatto tante volte, con i cugini o i fratelli, un gioco divertente. Ma fatto da adulti, e per di più con un cane, non è divertente affatto; anzi, appare un'assurdità, una pazzia, un fatto ludico grottesco. E così l'uomo rispettabilissimo che lo compie nel racconto, un professore e avvocato affermato, lo vede come una pazzia che lo sottrae a quella forma cui l'ha imbalsamato l'opinione di tutti, ma alla quale non si può sottrarre, se non con un atto estremo, assurdo, incomprensibile, che va tenuto segreto, ma che lo sottrae ad una logica sociale e a parametri, nei quali non si è mai ritrovato. Affiorano le classiche tematiche pirandelliane del relativismo della vita, della pena di vivere così, senza potersi sottrarre alla forma della propria esistenza che ci costringe il flusso della vita. Per cui l'unica soluzione per uscire dalle secche della logica della vita appare la pazzia di un atto grottesco.


Quand'ho qualcuno attorno, non la guardo mai; ma sento che mi guarda lei, mi guarda, mi guarda senza staccarmi un momento gli occhi d'addosso.
Vorrei farle intendere, a quattr'occhi, che non è nulla; che stia tranquilla; che non potevo permettermi con altri questo breve atto, che per lei non ha alcuna importanza e per me è tutto. Lo compio ogni giorno al momento opportuno, nel massimo segreto, con spaventosa gioja, perché vi assaporo, tremando, la voluttà d'una divina, cosciente follia, che per un attimo mi libera e mi vendica di tutto.
Dovevo essere sicuro (e la sicurezza mi parve di poterla avere solamente con lei) che questo mio atto non fosse scoperto. Giacché, se scoperto, il danno che ne verrebbe, e non soltanto a me, sarebbe incalcolabile. Sarei un uomo finito. Forse m'acchiapperebbero, mi legherebbero e mi trascinerebbero, atterriti, in un ospizio di matti.
Il terrore da cui tutti sarebbero presi, se questo mio atto fosse scoperto, ecco, lo leggo ora negli occhi della mia vittima.
Sono affidati a me la vita, l'onore, la libertà, gli averi di gente innumerevole che m'assedia dalla mattina alla sera per avere la mia opera, il mio consiglio, la mia assistenza; d'altri doveri altissimi sono gravato, pubblici e privati: ho moglie e figli, che spesso non sanno essere come dovrebbero, e che perciò hanno bisogno d'esser tenuti a freno di continuo dalla mia autorità severa, dall'esempio costante della mia obbedienza inflessibile e inappuntabile a tutti i miei obblighi, uno piú serio dell'altro, di marito, di padre, di cittadino, di professore di diritto, d'avvocato. Guai, dunque, se il mio segreto si scoprisse!
La mia vittima non può parlare, è vero. Tuttavia, da qualche giorno, non mi sento piú sicuro. Sono costernato e inquieto. Perché, se è vero che non può parlare, mi guarda, mi guarda con tali occhi e in questi occhi è così chiaro il terrore, che temo qualcuno possa da un momento all'altro accorgersene, essere indotto a cercarne la ragione.
Sarei, ripeto, un uomo finito. Il valore dell'atto ch'io compio, può essere stimato e apprezzato solamente da quei pochissimi, a cui la vita si sia rivelata come d'un tratto s'è rivelata a me.
Dirlo e farlo intendere, non è facile. Mi proverò.
Ritornavo, quindici giorni or sono, da Perugia, ove mi ero recato per affari della mia professione.
Uno degli obblighi miei piú gravi è quello di non avvertire la stanchezza che m'opprime, il peso enorme di tutti i doveri che mi sono e mi hanno imposto, e di non indulgere minimamente al bisogno di un po' di distrazione, che la mia mente affaticata di tanto in tanto reclama. L'unica che mi possa concedere, quando mi vince troppo la stanchezza per una briga a cui attendo da tempo, è quella di volgermi a un'altra nuova.
M'ero perciò portate in treno, nella busta di cuojo, alcune carte nuove da studiare. A una prima difficoltà incontrata nella lettura, avevo alzato gli occhi e li avevo volti verso il finestrino della vettura. Guardavo fuori, ma non vedevo nulla, assorto in quella difficoltà.
Veramente non potrei dire che non vedessi nulla. Gli occhi vedevano; vedevano e forse godevano per conto loro della grazia e della soavità della campagna umbra. Ma io, certo, non prestavo attenzione a ciò che gli occhi vedevano.
Se non che, a poco a poco, cominciò ad allentarsi in me quella che prestavo alla difficoltà che m'occupava, senza che per questo, intanto, mi s'avvistasse di piú lo spettacolo della campagna, che pur mi passava sotto gli occhi limpido, lieve, riposante.
Non pensavo a ciò che vedevo e non pensai piú a nulla: restai, per un tempo incalcolabile, come in una sospensione vaga e strana, ma pur chiara e placida. Ariosa. Lo spirito mi s'era quasi alienato dai sensi, in una lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il brulichio d'una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, non qua, non ora, ma là, in quell'infinita lontananza; d'una vita remota, che forse era stata sua, non sapeva come né quando; di cui gli alitava il ricordo indistinto non d'atti, non d'aspetti, ma quasi di desiderii prima svaniti che sorti; con una pena di non essere, angosciosa, vana e pur dura, quella stessa dei fiori, forse, che non han potuto sbocciare; il brulichio, insomma, di una vita che era da vivere, là lontano lontano, donde accennava con palpiti e guizzi di luce; e non era nata; nella quale esso, lo spirito, allora, sì, ah, tutto intero e pieno si sarebbe ritrovato; anche per soffrire, non per godere soltanto, ma di sofferenze veramente sue.
Gli occhi a poco a poco mi si chiusero, senza che me n'accorgessi, e forse seguitai nel sonno il sogno di quella vita che non era nata. Dico forse, perché, quando mi destai, tutto indolenzito e con la bocca amara, acre e arida, già prossimo all'arrivo, mi ritrovai d'un tratto in tutt'altro animo, con un senso d'atroce afa della vita, in un tetro, plumbeo attonimento, nel quale gli aspetti delle cose piú consuete m'apparvero come votati di ogni senso, eppure, per i miei occhi, d'una gravezza crudele, insopportabile.
Con quest'animo scesi alla stazione, montai sulla mia automobile che m'attendeva all'uscita, e m'avviai per ritornare a casa.
Ebbene, fu nella scala della mia casa; fu sul pianerottolo innanzi alla mia porta.
Io vidi a un tratto, innanzi a quella porta scura, color di bronzo, con la targa ovale, d'ottone, su cui è inciso il mio nome, preceduto dai miei titoli e seguito da' miei attributi scientifici e professionali, vidi a un tratto, come da fuori, me stesso e la mia vita, ma per non riconoscermi e per non riconoscerla come mia.
Spaventosamente d'un tratto mi s'impose la certezza, che l'uomo che stava davanti a quella porta, con la busta di cuojo sotto il braccio, l'uomo che abitava là in quella
casa, non ero io, non ero stato mai io. Conobbi d'un tratto d'essere stato sempre come assente da quella casa, dalla vita di quell'uomo, non solo, ma veramente e propriamente da ogni vita. Io non avevo mai vissuto; non ero mai stato nella vita; in una vita, intendo, che potessi riconoscer mia, da me voluta e sentita come mia. Anche il mio stesso corpo, la mia figura, quale adesso improvvisamente m'appariva, così vestita, così messa su, mi parve estranea a me; come se altri me l'avesse imposta e combinata, quella figura, per farmi muovere in una vita non mia, per farmi compiere in quella vita, da cui ero stato sempre assente, atti di presenza, nei quali ora, improvvisamente, il mio spirito s'accorgeva di non essersi mai trovato, mai, mai! Chi lo aveva fatto così, quell'uomo che figurava me? chi lo aveva voluto così? chi così lo vestiva e lo calzava? chi lo faceva muovere e parlare così? chi gli aveva imposto tutti quei doveri uno piú gravoso e odioso dell'altro? Commendatore, professore, avvocato, quell'uomo che tutti cercavano, che tutti rispettavano e ammiravano, di cui tutti volevan l'opera, il consiglio, l'assistenza, che tutti si disputavano senza mai dargli un momento di requie, un momento di respiro - ero io? io? propriamente? ma quando mai? E che m'importava di tutte le brighe in cui quell'uomo stava affogato dalla mattina alla sera; di tutto il rispetto, di tutta la considerazione di cui godeva, commendatore, professore, avvocato, e della ricchezza e degli onori che gli erano venuti dall'assiduo scrupoloso adempimento di tutti quei doveri, dell'esercizio della sua professione?
Ed erano lì, dietro quella porta che recava su la targa ovale d'ottone il mio nome, erano lì una donna e quattro ragazzi, che vedevano tutti i giorni con un fastidio ch'era il mio stesso, ma che in loro non potevo tollerare, quell'uomo insoffribile che dovevo esser io, e nel quale io ora vedevo un estraneo a me, un nemico. Mia moglie? i miei figli? Ma se non ero stato mai io, veramente, se veramente non ero io (e lo sentivo con spaventosa certezza) quell'uomo insoffribile che stava davanti alla porta; di chi era moglie quella donna, di chi erano figli quei quattro ragazzi? Miei, no! Di quell'uomo, di quell'uomo che il mio spirito, in quel momento, se avesse avuto un corpo, il suo vero corpo, la sua vera figura, avrebbe preso a calci o afferrato, dilacerato, distrutto, insieme con tutte quelle brighe, con tutti qua doveri e gli onori e il rispetto e la ricchezza, e anche la moglie, sì, fors'anche la moglie...
Ma i ragazzi?
Mi portai le mani alle tempie e me le strinsi forte.
No. Non li sentii miei. Ma attraverso un sentimento strano, penoso, angoscioso, di loro, quali essi erano fuori di me, quali me li vedevo ogni giorno davanti, che avevano bisogno di me, delle mie cure, del mio consiglio, del mio lavoro; attraverso questo sentimento e col senso d'atroce afa col quale m'ero destato in treno, mi sentii rientrare in quell'uomo insoffribile che stava davanti alla porta.
Trassi di tasca il chiavino; aprii quella porta e rientrai anche in quella casa e nella vita di prima.
Ora la mia tragedia è questa. Dico mia, ma chi sa di quanti!
Chi vive, quando vive, non si vede: vive... Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive piú: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Perché ogni forma è una morte.
Pochissimi lo sanno; i piú, quasi tutti, lottano, s'affannano per farsi, come dicono, uno stato, per raggiungere una forma; raggiuntala, credono d'aver conquistato la loro vita, e cominciano invece a morire. Non lo sanno, perché non si vedono; perché non riescono a staccarsi piú da quella forma moribonda che hanno raggiunta; non si conoscono per morti e credono d'esser vivi. Solo si conosce chi riesca a veder la forma che si è data o che gli altri gli hanno data, la fortuna, i casi, le condizioni in cui ciascuno è nato. Ma se possiamo vederla, questa forma, è segno che la nostra vita non è piú in essa: perché se fosse, noi non la vedremmo: la vivremmo, questa forma, senza vederla. e morremmo ogni giorno di piú in essa, che è già per sì una morte, senza conoscerla. Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi è morire.
Il mio caso è anche peggiore. Io vedo non ciò che di me è morto; vedo che non sono mai stato vivo, vedo la forma che gli altri, non io, mi hanno data, e sento che in questa forma la mia vita, una mia vera vita, non c'è stata mai. Mi hanno preso come una materia qualunque, hanno preso un cervello, un'anima, muscoli, nervi, carne, e li hanno impastati e foggiati a piacer loro, perché compissero un lavoro, facessero atti, obbedissero a obblighi, in cui io mi cerco e non mi trovo. E grido, l'anima mia grida dentro questa forma morta che mai non è stata mia: - Ma come? io, questo? io, così? ma quando mai? - E ho nausea, orrore, odio di questo che non sono io, che non sono stato mai io; di questa forma morta, in cui sono prigioniero, e da cui non mi posso liberare. Forma gravata di doveri, che non sento miei, oppressa da brighe di cui non m'importa nulla, fatta segno d'una considerazione di cui non so che farmi; forma che è questi doveri, queste brighe, questa considerazione, fuori di me, sopra di me: cose vuote, cose morte che mi pesano addosso, mi soffocano, mi schiacciano e non mi fanno piú respirare.
Liberarmi? Ma nessuno può fare che il fatto sia come non fatto, e che la morte non sia, quando ci ha preso e ci tiene.
Ci sono i fatti. Quando tu, comunque, hai agito, anche senza che ti sentissi e ti ritrovassi, dopo, negli atti compiuti; quello che hai fatto resta, come una prigione per te. E come spire e tentacoli t'avviluppano le conseguenze delle tue azioni. E ti grava attorno come un'aria densa, irrespirabile la responsabilità, che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non prevedute, ti sei assunta. E come puoi piú liberarti? Come potrei io nella prigione di questa forma non mia, ma che rappresenta me quale sono per tutti, quali tutti mi conoscono e mi vogliono e mi rispettano, accogliere e muovere una vita diversa, una mia vera vita? una vita in una forma: che sento morta, ma che deve sussistere per gli altri, per tutti quelli che l'hanno messa su e la vogliono così e non altrimenti? Dev'essere questa, per forza. Serve così, a mia moglie, ai miei figli, alla società, cioè ai signori studenti universitari della facoltà di legge, ai signori clienti che m'hanno affidato la vita, l'onore, la libertà, gli averi. Serve così, e non posso mutarla, non posso prenderla a calci e levarmela dai piedi; ribellarmi, vendicarmi, se non per un attimo solo, ogni giorno, con l'atto che compio nel massimo segreto, cogliendo con trepidazione e circospezione infinita il momento opportuno, che nessuno mi veda.
Ecco. Ho una vecchia cagna lupetta, da undici anni per casa, bianca e nera, grassa, bassa e pelosa, con gli occhi già appannati dalla vecchiaja.
Tra me e lei non c'erano mai stati buoni rapporti. Forse, prima, essa non approvava la mia professione, che non permetteva si facessero rumori per casa; s'era messa però ad approvarla a poco a poco, con la vecchiaja; tanto che, per sfuggire alla tirannia capricciosa dei ragazzi, che vorrebbero ancora ruzzare con lei giú nel giardino, aveva preso da un pezzo il partito di rifugiarsi qua nel mio studio da mane a sera, a dormire sul tappeto col musetto aguzzo tra le zampe. Tra tante carte e tanti libri, qua, si sentiva protetta e sicura. Di tratto in tratto schiudeva un occhio a guardarmi, come per dire:
"Bravo, sì, caro: lavora; non ti muovere di lì, perché è sicuro che, finché stai lì a lavorare, nessuno entrerà qui a disturbare il mio sonno."
Così pensava certamente la povera bestia. La tentazione di compiere su lei la mia vendetta mi sorse, quindici giorni or sono, all'improvviso, nel vedermi guardato così.
Non le faccio male; non le faccio nulla. Appena posso, appena qualche cliente mi lascia libero un momento, mi alzo cauto, pian piano, dal mio seggiolone, perché nessuno s'accorga che la mia sapienza temuta e ambita, la mia sapienza formidabile di professore di diritto e d'avvocato, la mia austera dignità di marito, di padre, si siano per poco staccate dal trono di questo seggiolone; e in punta di piedi mi reco all'uscio a spiare nel corridojo, se qualcuno non sopravvenga; chiudo l'uscio a chiave, per un momento solo; gli occhi mi sfavillano di gioja, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d'esser pazzo, d'esser pazzo per un attimo solo, d'uscire per un attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di distruggere, d'annientare per un attimo solo, beffardamente, questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia; corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto; piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non piú, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro.
Questo è tutto. Non faccio altro. Corro subito a riaprire l'uscio adagio adagio, senza il minimo cricchio, e mi rimetto in trono, sul seggiolone, pronto a ricevere un nuovo cliente, con l'austera dignità di prima, carico come un cannone di tutta la mia sapienza formidabile.
Ma, ecco, la bestia, da quindici giorni, rimane come basita a mirarmi, con quegli occhi appannati, sbarrati dal terrore. Vorrei farle intendere - ripeto - che non è nulla; che stia tranquilla, che non mi guardi così.
Comprende, la bestia, la terribilità dell'atto che compio.
Non sarebbe nulla, se per scherzo glielo facesse uno dei miei ragazzi. Ma sa ch'io non posso scherzare; non le è possibile ammettere che io scherzi, per un momento solo; e seguita maledettamente a guardarmi, atterrita.



Trieste

UMBERTO SABA

Dalla raccolta "Trieste e una donna" (1910-12)


Metro: strofe irregolari de endecasillabi, settenari e quinari. Alcune rime baciate.




"Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un'erta,
(1) la prospettiva è dall'alto
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
(2) si nota un andamento narrativo


Trieste ha una scontrosa
(3) ossimoro che indica il carattere contraddittorio di questa città
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
(4) gli occhi azzurri è riferito al mare
per regalare un fiore;
(personificazione )
come un amore
con gelosia.
Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via
(5) ancora una visione dall'alto
scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un'aria strana, un'aria tormentosa,
l'aria natia.

La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva."
(6) qui è solo, in "Città vecchia" era in comunione con gli altri


La città vecchia


F. De Andrè


Nei quartieri dove il sole del buon Dio
Non dà i suoi raggi,
ha già troppi impegni per scaldar la gente
d'altri paraggi,
una bimba canta la canzone antica
della donnaccia
quel che ancor non sai tu lo imparerai
solo qui fra le mie braccia.
[ …]

Vecchio professore cosa vai cercando
In quel portone,
forse quella che sola ti può dare
una lezione,
quella che di giorno chiami con disprezzo
pubblica moglie,
quella che di notte stabilisce il prezzo
alle tue voglie
[ …]

Se t'inoltrerai lungo le calate
Dei vecchi moli
In quell'aria spessa, carica di sale,
gonfia di odori,
lì ci troverai i ladri, gli assassini
e il tipo strano,
quello che ha venduto per tremila lire
sua madre a un nano.

Se tu penserai e giudicherai
Da buon borghese,
li condannerai a cinquemila anni
più le spese.
Ma se capirai, se ricercherai
Fino in fondo,
se non sono gigli, son pur sempre figli,
vittime di questo mondo.



Umberto Saba
La capra




Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
("sola e legata" come simbolo della persecuzione ebraica )
Sazia d'erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
( il belato è inteso come pianto )

Quell'uguale belato era fraterno
( comunione col dolore altrui)
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
( per celia = per gioco )
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
( latinismo: sentiebat; voce come nell'uomo)
gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita
(viso, come nell 'uomo ; semita perhè il muso della capra con la barbetta ricorda i tratti ebraici)
sentiva querelarsi ogni altro male, ( querelarsi: latinismo da quaero)
ogni altra vita. lamentarsi



Commento e analisi :

E' una poesia in cui Saba esprime in modo oggettivo, la propria pessimistica concezione della vita, che ricorda sia il pessimismo cosmico leopardiano sia il montaliano "male di vivere".
Una capra solitaria, è colta in un momento di disagio ("sazia" sì, ma "legata" e "bagnata dalla pioggia"), alla quale il poeta si sente vicino perché accomunato ad essa, come a tutti gli altri esseri viventi, dalla uguale ed eterna legge di dolore.
Perciò la risposta " per celia " a "quell'uguale belato" non sembra più ridicola o buffa (come nel primo verso) ma profondamente seria e partecipe.
La dimensione del dolore diventa universale nell'ultimo verso:"ogni altro male, ogni altra vita ) ( Leopardi nel Canto notturno: "a me la vita è male" )



UMBERTO SABA
A mia moglie


I l poeta delinea in questa lirica il ritratto della moglie Lina, e lo fa usando la tecnica del confronto. La donna viene paragonata alle femmine di sette animali.
La forma metrica è data da sei strofe irregolari di endecasillabi e settenari, chiusi da un quinario e liberamente rimati.


Tu sei come una giovane,
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
5 per bere, e in terra raspa;
ma, nell'andare, ha il
lento tuo passo di regina,
ed incede sull'erba
pettoruta e superba.
10 È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti i sereni animali
che avvicinano a Dio.
15 Così se l'occhio, se il giudizio mio
non m'inganna, fra queste hai le tue
uguali, e in nessun'altra donna.
Quando la sera
assonna le gallinelle,
20 mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi
mali ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e
triste musica dei pollai.
25 Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
30 volge, ove tinge un rosa
tenero la sua carne.
Se l'incontri e muggire
l'odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l'erba
35 strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t'offro quando sei triste.
Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
40 dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d'un fervore
indomabile arda,
45 e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
50 candidissimi scopre.
Ed il suo amore
soffre di gelosia.
Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l'angusta
55 gabbia ritta al vederti
s'alza,
e verso te gli orecchi alti
protende e fermi; che la
crusca e i radicchi
60 tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui. Chi
potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
65 che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?
Tu sei come la rondine
70 che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest'arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere;
75 questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un'altra primavera.
Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
80 parla al bimbo la nonna
che l'accompagna.
E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
85 i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun'altra donna.

ANALISI

Nella prima strofa la moglie del poeta è come una bianca pollastra arruffata, dal lento passo da regina e dalla voce sommessa. L'inconsueto paragone accenna anche alla nobiltà degli animali femmine, che avvicinano a Dio, perché hanno le virtù tipiche della sensibilità cristiana (dolcezza, fedeltà, devozione).

Nella seconda strofa la moglie è come una giovane mucca gravida, simbolo di maternità gioiosa, che suscita tenerezza e che il poeta sente il bisogno di accarezzare (se la lisci... carne) e consolare nei momenti di sofferenza. È qui evidente l'allusione a quando la moglie aspettava una figlia, che nacque nel 1910.

Nella terza strofa la moglie è come una cagna dagli occhi dolcissimi, animata da intenso amore e da sensuale femminilità,fedele e devota nell'intimità, ma ferocemente gelosa del suo padrone in presenza di estranei.

Nella quarta strofa la moglie è timida e paurosa, ma dotata di amore materno come una coniglia, che per riscaldare la tana dei propri piccoli si strappa di dosso il pelo.

Nella quinta strofa la moglie ha la grazia leggera della rondine, simbolo della primavera e della rinascita della natura, capace di infondere nel poeta l'amore per la vita; diversamente dalla rondine, la moglie non ha l'abitudine di andarsene via,ed è fedele.

Nella sesta strofa la moglie è definita laoriosa e previdente come una formica e un'ape. In chiusura ritorna un verso della prima strofa, che sottolinea la dimensione religiosa della poesia: gli animali sono visti come espressione della grandezza di Dio.





Poesia come una preghiera

In Storia e cronistoria del Canzoniere Saba spiega che A mia moglie è una lirica religiosa, "scritta Come altri reciterebbe una preghiera". Si tratta comunque di un Dio lontano dalla tradizione cattolica e l'intera poesia può essere letta come un'allegoria di tono medievale, ma tutta umana
e non trascendente. L'uomo medioevale trovava nel grande libro della natura la manifestazione di Dio,per cui ogni fenomeno era anche il segno di una verità superiore. Nei versi di Saba, al contrario, gli animali non sono simboli, ma sono visti realisticamente: il poeta non trova in loro le virtù di Lina, ma scopre in Lina le loro virtù.


Poesia "infantile"
"La poesia provocò, appena conosciuta allegre risate" - racconta l'autore - "Pareva strano che un uomo scrivesse una poesia per paragonare sua moglie a tutti gli animali della creazione. È la sola del Nostro [dell'autore] che abbia suscitato un po'di scandalo; è forse a questo che si deve la sua notorietà: una notorietà di "contenuto". Ma nessuna intenzione di scandalizzare, e nemmeno di sorprendere, c'era, quando la compose, in Saba. La poesia ricorda piuttosto una poesia "religiosa";fu scritta come altri reciterebbe una preghiera. Ed oggi infatti la si può nominare o leggere in qualunque ambiente, senza la preoccupazione di suscitare il riso. Un giornale comunista disse, recentemente, che A mia moglie è una poesia proletaria. Noi pensiamo invece che sia una poesia "infantile"; se un bambino potesse sposare e scrivere una poesia per sua moglie, scriverebbe questa.
Un pomeriggio d'estate, mia moglie era uscita per recarsi in città. Rimasto solo, sedetti, per attenderne il ritorno, sui gradini del solaio. Non avevo voglia di leggere, a tutto pensavo fuori che a scrivere una poesia. Ma una cagna, la "lunga cagna" della terza strofa, mi si fece vicino, e mi pose il muso sulle ginocchia, guardandomi con occhi nei quali si leggeva tanta dolcezza e tanta ferocia. Quando, poche ore dopo, mia moglie ritornò a casa, la poesia era fatta." (Storia e cronistoria del Canzoniere).
Il legame moglie-madre
Al di là del dato affettuoso e quasi religioso, emerge nei versi la conflittualità che caratterizzava il poeta nei confronti dell'elemento femminile. Il commento Chi mai farti soffrire?, interpretato in chiave edipica, rimanda alla coppia moglie-madre, cioè alla identificazione della moglie con la madre, e al desiderio, destinato suo malgrado a essere frustrato, di non arrecare loro sofferenze.

L'immagine conclusiva della nonna che narra al bambino la favola della cicala e la formica (vv. 78-80) ingloba nel nucleo affettivo marito-moglie (la moglie di Saba in quel tempo era incinta) quella di nonna-nipote.
Il lessico e il ritmo da preghiera
L'andamento del testo è colloquiale e il lessico tendenzialmente semplice, anche se non mancano termini ricercati (assonna, ti quereli, provvida, pecchia) e la sintassi presenta frequenti inversioni che non appartengono al linguaggio quotidiano (il collo china, in terra raspa, il collo volge, tanto è quel suono / lamentoso...).L'anafora (Tu sei come...), all'inizio di ogni verso, insieme ad altri parallelismi, crea il ritmo della preghiera:
- ogni strofa presenta un animale, l'ultima ne presenta due;
- ogni animale è definito da un aggettivo o più e da frasi principali e relative;
- ogni strofa, tranne la terza, inizia con un verso sdrucciolo (giòvane, gràvida, pàvida, ròndine,pròvvida);
- ogni strofa, tranne la prima e la quinta, presenta un enjambement fra il primo e il secondo verso (gravida / giovenca; lunga / cagna; pavida / coniglia; provvida / formica).




GIUSEPPE UNGARETTI
da l'Allegria


"Ero in presenza della morte, in presenza della natura, di una natura che imparavo a conoscere in modo terribile. Dal momento che arrivo ad essere un uomo che fa la guerra, non è l'idea di uccidere o di essere ucciso che mi tormenta: ero un uomo che non voleva altro per sé se non i rapporti con l'assoluto, l'assoluto che era rappresentato dalla morte. Nella mia poesia non c'è traccia d'odio per il nemico, né per nessuno; c'è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell'estrema precarietà della loro condizione. C'è volontà d'espressione, necessità d'espressione, nel Porto sepolto,quell'esaltazione quasi selvaggia dello slancio vitale, dell'appetito di vivere, che è moltiplicato dalla prossimità e dalla quotidiana frequentazione della morte. Viviamo nella contraddizione. Posso essere un rivoltoso, ma non amo la guerra. Sono anzi un uomo della pace. Non l'amavo neanche allora, ma pareva che la guerra s'imponesse per eliminare la guerra. Erano bubbole, ma gli uomini a volte si illudono e si mettono dietro alle bubbole". (Giuseppe Ungaretti )



Sono una creatura




Come questa pietra
( similitudine )
del S. Michele
così fredda
( climax aggettivale ascendente ; anafora :così..così..)
così dura
così prosciugata
così refrattaria
cos' totalmente
disanimata

Come questa pietra
( similitudine )
è il mio pianto
che non si vede

La morte
si sconta
vivendo



COMMENTO:

Il San Michele (luogo della poesia), è un'altura del Carso, a sud ovest di Gorizia, oggetto di ripetuti attacchi italiani e conquistata definitivamente il 6 agosto 1916, nel corso della sesta battaglia dell'Isonzo.
E' una zona aspra e arida. Formato da rocce porose, la pioggia non ha tempo a toccare terra che già viene assorbita dal terreno permeabilissimo. Simile all'acqua che viene immediatamente assorbita dal terreno è il pianto del poeta, un pianto senza lacrime, un dolore intimo che prosciuga l'anima. Quasi come se la pace della morte si debba scontare con le sofferenze della vita.


ANALISI :
Come…come: stabiliscono un rapporto di somiglianza tra il paesaggio arido del San Michele e il pianto del fante-poeta che non si vede, perché è un pianto interiore, prosciugato ancora prima di sgorgare sotto forma di lacrime.

Prosciugata: arida, priva di umidità come gli occhi del soldato Giuseppe Ungaretti

Refrattaria: che respinge ogni forma di vita, come il dolore del poeta che rifugge da ogni conforto.

Disanimata: senza palpito di vita.

La morte si sconta vivendo: la pace che ci aspetta con la morte deve essere pagata con le sofferenze della vita.





Struttura
: la lirica è formata da tre strofe di varia lunghezza di versi liberi. Varia il numero dei versi nelle strofe e varia anche la misura dei versi, che sono senari, quinari, quaternari e ternari.
La lirica è costruita secondo una struttura, che, nella sua rigorosa semplicità, rivela un attento dosaggio degli effetti, in modo da ottenere il massimo risultato espressivo con il minimo dispendio di parole poetiche.
Due sono i procedimenti adottati dal poeta: il primo è quello del vertice emotivo che si conclude con il climax ascendente (totalmente disanimata. )Il secondo procedimento consiste nell'uso della figura retorica dell'anafora: l'avverbio così, ripetuto all'inizio di ognuno dei quattro versi e anche del penultimo verso
L'ultimo verso della strofe, è formato da una sola parola: l'aggettivo disanimata.
L'altra anafora è costituita da Come questa pietra: serve a mettere in rapporto di comparazione le prime due strofe (comparativo di uguaglianza).

La terzina finale costituisce un aforisma, come in "Veglia" ( non sono mai stato tanto attaccato alla vita )
Ancora una volta i punti sono sostituiti dagli spazi bianchi e la cadenza del ritmo sostituisce le virgole, segnando le pause per una lettura espressiva.

Temi: l'esperienza del dolore e della morte si traduce, in questa lirica, in una identificazione con la natura aspra , scabra e arida del paesaggio carsico, nel quale la roccia è porosa e l'acqua che cade dal cielo sparisce e sprofonda nel terreno permeabile.

Sembra che il poeta stia descrivendo una metamorfosi. Da un punto di vista formale è un processo panico, ma esiste una abissale differenza tra l'impietramento" ungarettiano e il panismo vitalistico dannunziano della "La pioggia nel pineto".
Ungaretti infatti, attraverso la metamorfosi, non conquista una condizione esistenziale sovrumana, ma al contrario si riduce a oggetto inanimato: siamo di fronte alla degradazione dell'uomo ad oggetto per trovare una via di scampo alla sofferenza. Simile a quell'acqua che subito scompare, quasi risucchiata dalla roccia, è il pianto del poeta, senza lacrime, un dolore interiore che prosciuga l'anima.
La pace di questa "morte" si sconta con le sofferenze della vita del soldato, caratterizzata da quel dolore freddo, duro, aspro, totalmente privo di possibilità di consolazione.

"Soltanto la poesia - l'ho imparato terribilmente, lo so - la poesia sola può recuperare l'uomo, persino quando ogni occhio si accorge, per l'accumularsi delle disgrazie, che la natura domina la ragione e che l'uomo è molto meno regolato dalla propria opera che non sia alla mercè dell'elemento".

Giuseppe Ungaretti



Analisi " I limoni " ( E. Montale)



La lirica apre la raccolta "Ossi di seppia" del 1925, con cui Montale prende le distanze dalla poesia accademica della tradizione e in particolare dal suo linguaggio aulico.
La poesia si apre con il programmatico rifiuto dei poeti "laureati", si tratta dunque, di una sorta di manifesto poetico che anticipa temi e caratteristiche espressive del primo Montale. L'ambiente e quello tipicamente ligure che montale frequentò in gioventù e che resterà sempre presente nella memoria del poeta.

In questo componimento il linguaggio poetico si basa su toni confidenziali e colloquiali ( Ascoltami…Io per me…ecc) dietro i quali si cela una diffusa musicalità. Dal punto di vista metrico il testo si compone quattro strofe di versi liberi , prevalentemente endecasillabi cui si accompagnano settenari e doppi settenari. Non mancano rime interne (laureati/usati, umana/allontana), consonanze e assonanze (piante/acanti; gazzarre/azzurro).
Va sottolineato l'andamento narrativo del testo che prefigura una sorta di percorso a ritroso nel ricordo: diversi quadri sono collocati nel tempo sempre presente nella memoria, come avviene, ad esempio, nella scena dei ragazzi che catturano le anguille nelle pozzanghere.(v.5 e v. 6).
La lirica è intessuta di una fitta trama di figure retoriche tra cui l'ossimoro (dolcezza inquieta v.17, , il chiasmo  luce avara : amara l'anima v.42), l'anafora (vv18-20), frequenti sono anche le allitterazioni e le affinità foniche. Se nella prima sequenza il poeta dichiara il suo distacco dai canoni della poesia tradizionale, nella seconda esprime il significato metaforico dei limoni e invita a cogliere il senso riposto del reale.
Nei momenti di sospensione, infatti, lo spirito è chiamato ad auscultare i palpiti dell'universo per capire in cosa si siano inceppati i meccanismi che regolano e condizionano la nostra esistenza, per far luce su ciò che corrode il mondo, scoprire cosa sia ceduto e uscire dall'intricato labirinto delle apparenze ( sbaglio di natura v.26; punto morto del mondo , l'anello che non tiene v.27, il filo da disbrogliare v.28). Montale lascia prima intravedere una speranza, un varco, per approdare ad una verità storica e metafisica ma poi l'illusione viene meno, e la verità appare sempre più lontana e irraggiungibile. Pertanto nel corso del componimento, nuovi correlativi oggettivi segnano il passaggio da una atmosfera rarefatta e sospesa alle trappole della modernità e del divenire (" e ci riporta il tempo nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra soltanto a pezzi" vv.37-38). L'anima precipita nel triste grigiore e in un fitto tedio esistenziale.
Ma nell'explicit del componimento riemerge, in una sorta di visione epifanica, "il giallo dei limoni", esso si mostra inatteso e attraverso un prezioso procedimento sinestetico si trasforma in un suono dorato, " in una tromba di solarità" (v.49). E' qui che appare il pessimismo dialettico di Montale, tra la tensione conoscitiva e la sua incapacità di penetrare i meccanismi della vita.


PRIMAVERA HITLERIANA
Parafrasi –analisi


“Quella che si gira per vedere il sole…” è Clizia. Lo sciame fitto e bianco delle farfalle impazzite turbina (gira in aria) intorno ai lampioni smorti (scialbi) e sui muretti del fiume (Arno), stende a terra una coperta su cui i piedi scricchiolano come sullo zucchero: l’estate che sta arrivando ora emana il gelo notturno che era ancora racchiuso nei nascondigli segreti della stagione morta, negli orti che da Maiano si susseguono fino a queste rive sabbiose.
Da poco tempo è passato in fretta sul corso di Firenze un inviato dell’inferno (Hitler) tra un grido (alalà) di soldati, un golfo mistico (l’orchestra) illuminato e addobbato di croci a uncino lo ha accolto e inghiottito, sono state chiuse le vetrine dei negozi, povere e inoffensive benchè armate piene di cannoni e di giocattoli di guerra, il macellaio che adornava di bacche il muso dei capretti uccisi ha chiuso il negozio, la festa dei miti carnefici che ignorano il sangue che sta per essere versato si è trasformata in uno sporco ballo d’ali spezzate, di insetti sugli argini (golene) e l’acqua continua a consumare le sponde e nessuno più e senza colpa.

(L’acqua che scorre indica il procedere inesorabile della storia verso il suo esito catastrofico.)

Tutto quello che di positivo Clizia incarna è dunque inutile?- sia i fuochi d’artificio nel giorno di San Giovanni, che illuminavano l’orizzonte con lentezza, sia le promesse ,sia gli addii prolungati forti come un battesimo nella luttuosa attesa della massa violenta (i nazisti) (ma una stella cadente attraversò il cielo proiettando sui ghiacci e le coste delle tue regioni i sette angeli di Tobia, la semina del futuro) sia i girasoli nati dalle tue mani- tutto bruciato e divorato da un polline che stride come il fuoco e ha punte gelide.(sinibbio è un vento del nord).

(Dato il trionfo del male il poeta si chiede a che cosa siano serviti i momenti vissuti con Clizia. Ricorda i gesti che hanno preceduto la sua partenza. Tutto sembra essersi ridotto ad un paesaggio di distruzione, metaforicamente ad una distesa di farfalle morte. Nelle poesie di Montale il Nord rappresenta una categoria spirituale positiva mentre il Sud è legato all’esistenza materiale, all’immanenza.)

Oh la primavera ferita è ugualmente una festa se trasforma nel freddo della morte la visita di Hitler (questa morte). Clizia tu che conservi, pur essendo cambiata ,lo stesso amore non mutato, guarda verso il sole, è questo il tuo destino, fino a quando l’amore segreto che porti dentro di te sia abbagliato in Dio e si annulli in Lui per la salvezza di tutti.

(Il non mutato amor mutata serbi è un verso di Dante e  segue quello citato in epigrafe, si riferisce alla trasformazione della ninfa Clizia in girasole e alla permanenza in lei dello stesso amore per Apollo, dio del sole, anche nella nuova natura. In riferimento a Montale, Irma Brandeis si era trasferita negli Stati Uniti, il rapporto con lei era sublimato in una confidenza intellettuale.)

Forse i suoni delle sirene, i rintocchi che festeggiano i mostri nella sera del loro incontro diabolico, si mescolano già con il suono che liberato dal cielo, scende sulla terra, vince –si mescolano con il respiro di un’alba bianca ma senza ali di orrore, che domani rispunti per tutti gli uomini sulle rive bruciate del sud.

(In questa poesia Clizia svolge una funzione salvifica analoga a quella di Beatrice. I legami fra immagine e significato sono occasionali, scelti dal poeta. All’inizio la nuvola di falene rappresenta la vittoria della morte, quindi del nazismo alla fine indica la morte di questa morte! )

Figure retoriche: coltre : metafora. Il piede : metonimia. Golfo mistico : sineddoche. Inoffensive….armate è un ossimoro.



 
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