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classe 4 > ITALIANO

Prepararsi al saggio breve

Uno dei problemi che rende più ardua la comprensione della nuova prova d’italiano è la definizione di "saggio breve". La realizzazione di una forma testuale così denominata è prevista dal Decreto ministeriale relativo alle modalità di svolgimento della prima prova scritta (tipologia B). Partire da una buona definizione è per questo essenziale. Se si parte da una buona definizione, risulterà più facile non cadere nella consueta trappola e cioè confondere il "saggio breve" (s.b.) con l’articolo di giornale.
Oggetto di questa lezione saranno proprio i "saggi brevi", o meglio, l’acquisizione di informazioni-base per poter approdare – indipendentemente dalla prova d’esame – a realizzare alcuni saggi brevi che non abbiano necessariamente i caratteri della semplificazione, ma aspirino ad una realizzazione strutturalmente più impegnativa.

Definizione
Il saggio breve è un testo scritto che consiste nella trattazione di una tematica riguardo alla quale si sia in possesso di una certa documentazione e di cui si sia elaborata una personale interpretazione.
Già da questa sintetica definizione dovrebbe risultare chiaro il capovolgimento di prospettiva che la riforma dell’esame di stato impone ai nuovi candidati. Non si incomincia a scrivere subito, appena letta la traccia, come si faceva e si fa per il tema tradizionale, ma si inizia a scrivere soltanto dopo che si è raccolta la necessaria documentazione.
Viene pertanto richiesta una tecnica diversa. Ne consegue una riflessione preliminare: non è affatto sicuro che i bravi redattori di "temi" si rivelino altrettanto abili nella stesura del "saggio breve". Alle tradizionali doti compositive subentrano doti di intuito, di sinteticità e anche di creatività. E anche le consuete abilità, per esempio, riassuntive, non è detto che si riverberino positivamente nella stesura di un s.b. Altra cosa è riassumere un racconto o un romanzo, altra cosa è riassumere – supponiamo in tre righe – la tesi forte su cui si fonda un saggio di uno storico o di un critico letterario.
Le difficoltà e gli equivoci nascono quasi subito. Infatti è obbligatorio fare ricorso ad una documentazione – se il saggio è svolto a casa anzi è auspicabile effettuare ricerche personali. MA il giorno dell’esame bisogna fare i conti con la realtà, che è ben povera sul piano qualitativo e quantitativo: la documentazione che il Ministero ci offre nei fogli allegati alla consegna è infatti scarsa, poco più di un assaggio, qualche minimo frammento documentario, fornito a titolo esemplificativo. Poi, alla resa dei conti, bisogna appoggiarsi alla propria memoria e al sedimentarsi delle conoscenze pregresse. Due o tre documenti, non di più, qualcosa di più vario (riproduzione di un quadro, fotogramma di un film) viene per l’ambito artistico-letterario. Solitamente si può fare affidamento su tre citazioni, di una decina di righe ciascuno, dove vengono proposte tesi contrapposte, in modo da stimolare direttamente la pratica argomentativa. E’ esattamente ciò che cerco di fare nei compiti in classe e e nelle esercitazioni preparatorie.
La prova del s.b. è calibrata su una richiesta fondamentale della scrittura scolastica: "Puoi cominciare a prendere la penna in mano soltanto dopo aver preso adeguate informazione e dopo aver ordinato le tue idee intorno a fatti, dati, nozioni, letture". L’obiettivo è sempre parlare (e scrivere) con cognizione di causa, dopo aver riflettuto ed attinto a fonti autorevoli, a pensatori, a maestri del pensiero ed abbracciato un punto di vista. Difenderlo, poi, con un tono che sia adeguato al destinatario (al proprio interlocutore). Al di là delle polemiche, il s.b. in fondo vuole insegnare un fondamento: che, richiesti di una opinione in merito a un problema, non si spari la prima cosa che viene in mente e non si usi lo stesso tono e lo stesso registro con tutti. Dite che è poco… Nessuno vi chiede di scrivere una tesi di laurea, e neppure una tesina, e neppure un saggio scientifico. Come si potrebbe in tre-sei ore? La richiesta è semplice, pulita, essenziale, senza grandi pretese e vi fornisce tutti gli elementi per ottenere un buon risultato. Quel che è meglio, vi fornisce il METODO per affrontare la soluzione di un problema uscendo dal dilagante trend dei toni da tolk-show. Questo distingue il s.b. dal “tema tradizionale” (tipologia D): Nel tema tradizionale non siete obbligati a documentarvi, a citare, adefinire il vostro interlocutore. MA non mi dite che non lo fate lo stesso! Magari inconsapevolmente, ma anche nel tema libero citate le vostre conoscenze, usate riferimenti e scegliete un tono e un registro. Siete, semplicemnete, più “liberi”.
La questione cruciale, è evidente, è quella della documentazione. “Più documenti significa migliore storia", scrive Momigliano. Tradotto: "Più documenti significa miglior saggio breve." Ma è anche evidente che in sei ore (o nelle tre del compito in classe) bisogna tener d’occhio i tempi: non è certo il lavoro che si può fare con calma e senza agitazione a casa propria, magari dopo aver “sedimentato” le problematiche per un paio di giorni e maturato una posizione decisa.
Il consiglio più importante è di tenere d’occhio in primo luogo la pulizia e l’efficacia della scrittura, che tanti presidenti (e ahimé tanti colleghi) ritengono l’unico elemento valutabile concretamente, solo perché in un testo non riescono a vedere altro che gli errori di ortografia: accenti, divisione in sillabe, pertinenza dei connettivi sono i loro cavalli di battaglia. Purtroppo la politica di reclutamento dei docenti di Italiano presenta delle contraddizioni. Spesso si chiede loro di insegnare quello che essi stessi … (omissis). I vostri temi potrebbero essere corretti da commissari che considerano assolutamente PRIMARIA la correttezza formale, e - griglia o non griglia - essa pregiudicherà la valutazione in tutti gli altri indicatori. Un apostrofo che scappa dalla penna vi costerà il 15 e sarete furiosi per tanto studio e tanto impegno intellettuale mortificati da un automatismo infantile mai completamente rimosso, specie in situazioni di tensione come l’Esame di Stato. Inutili furono le mie lotte a suon di esposti e citazioni bibliografiche contro un presidente di Commissione d’Esame per questo motivo. Quindi il tempo per il labor limae finale va ASSOLUTAMENTE computato: e le sei ore diventano sì e no un paio, se valutiamo i ritardi e il tempo necessario alla scelta e poi alla concentrazione. Entriamo ora un po’ di più nello specifico.

La tipologia del saggio breve
Per definizione il s.b. non può che essere breve. Nella "consegna" fornita allo studente all’inizio della prova viene di norma precisata una lunghezza standard: max 4-5 colonne di mezza pagina protocollo (si potrebbe anche dire 8.000-10.000 battute di un normale programma di videoscrittura).
La brevità e la sinteticità sono doti supreme per la stesura di un buon elaborato. Non vince chi scrive tanto, ma chi riesce a dire molto in uno spazio breve. Valori e criteri di giudizio sono per molti aspetti capovolti: chi riesce a inserire il maggior numero di informazioni nel più breve spazio possibile è giudicato con maggiore attenzione rispetto a chi si perde in digressioni, in esercizi virtuosi fini a se stessi, seppur ben confezionati. Dunque è auspicabile che il collegamento fra le proprie argomentazioni, fra il proprio personale modo di esporre le cose sia sorretto innanzitutto da cifre, dati statistici, definizioni esili ma chiare di un’idea-guida che costituirà la parte centrale della prova.
La stesura dovrà essere prevalentemente di tipo argomentativo: si tratterà cioè di descrivere, indicare, esporre e spiegare le ragioni degli altri confrontandole con le proprie.
A differenza di un tema, il s.b. non richiede una introduzione. Si potrà entrare subito in medias res, perché si dà per scontato che il lettore medio, cui s’indirizza il nostro testo, conosca l’argomento (non così viene richiesto per l’articolo di giornale: una delle tante ragioni che consigliano di sottolineare, subito, in fase di esercizio, le sostanziali e per molti aspetti radicali differenze fra i due tipi di scrittura).
Si consiglia l’uso del presente storico, cioè della forma verbale assertiva per eccellenza. Meglio se il presente storico è confortato da una terza persona impersonale, sostituita dal pronome Io soltanto nella parte conclusiva del lavoro, laddove sarà bene mettersi in campo direttamente, con una valutazione personale piuttosto energica.
Il saggio breve inoltre non è un esercizio retorico, né un comizio, né una prova di virtuosismo stilistico-letterario: i puntini di sospensione, le esclamazioni, le troppe domande retoriche, ben accetti in un articolo di giornale, non avranno diritto di cittadinanza nel s.b.. Altri sono i coefficienti nella valutazione: la stringatezza, l’efficacia riassuntiva, la capacità di citare senza dilungarsi e senza offrire il destro all’accusa di plagio (la cosiddetta ars citandi non gode di molta fortuna nelle aule scolastiche, sebbene richiederebbe un laboratorio a sé). Citare due-tre righe dal documento offerto va bene, riportare l’intero brano è pura follia. E così ancora: vi sono autori che per puro senso di buon gusto non si citano (per es. i proverbi popolari,a voi tanto graditi, oppure un presentatore di varietà televisivo oppure il tanto da voi amato e saccheggiato Vasco non sono citazioni autorevoli in un s.b, mentre, ben usate, possono esserlo in un articolo di giornale. Quindi, occhio alla serietà delle fonti.
Il tipo di scrittura non sarà quello giornalistico, divulgativo, anche se la chiarezza espositiva è elemento di primaria importanza. Per chi pèossiede una scrittura brillante e colorita è meglio scegliere la forma dell’articolo di giornale. Il s.b. esige un minimo di serietà professionale, un lessico appropriato, pulito, talora specialistico. Non esclude tuttavia, ove necessario, il ricorso agli strumenti della polemica, ai toni accesi del dibattito culturale, se l’argomento lo richiede e soprattutto se si hanno argomenti adeguatamente documentati da mettere sul piatto della bilancia.
Il tono e il registro dovranno essere quelli di un buon manuale o, appunto, di un saggio d’autore. Per questo è fondamentale l’esercizio propedeutico della lettura di s.b. scritti da saggisti di professione e serve poco l’appiattimento al livello del settimanale divulgativo come accade nella maggior parte delle esercitazioni che spesso si leggono nei manuali scolastici sotto forma di esercizi. MA sono esemplari i saggi critici contenuti nel Baldi alla fine di ogni monografia.
Uno dei problemi più seri della scuola odierna consiste nella perdita del senso critico, nell’appiattimento dei livelli interpretativi, sicché possono considerarsi alla stessa stregua un pur bravo inviato speciale e uno storico serio. Non si improvvisa mai, tanto meno un s.b.: se prima di arrivare alla prova non si sono letti un po’ di s.b. "d’autore" non si farà dunque molta strada. Tra l’altro, non sarà male ricordare che i s.b. sono una prerogativa della tradizione culturale novecentesca del nostro paese, una delle non tante cose di cui le nostre "patrie lettere" possono a buon diritto vantarsi: si pensi alle Prose polemiche di Luigi Russo, giù giù fino agli Scritti corsari di Pier P. Pasolini, esiste una nobile tradizione lì pronta a offrire materiali di lavoro. Come in ogni forma espressiva, nulla s’inventa, ma tutto s’impara osservando.

Le consegne
Con termine un po’ militaresco si indica così il brano di una ventina di righe che sostituisce la vecchia traccia del tema d’esame. E’ un testo che racchiude in sé ciò che viene richiesto al candidato. Con poche varianti le consegne tendono ormai a ripetersi di anno in anno, secondo un modello standardizzato che adesso esamineremo. Le consegne, di norma, non mutano a seconda dell’ambito per il quale sono state concepite.
La prova del saggio breve risulta pertanto così suddivisa:
ambito storico-politico
ambito artistico-letterario
ambito socio-economico
ambito tecnico-scientifico 
Ogni candidato può scegliere fra queste quattro opzioni, all’interno delle quali è indicato un argomento.
L’argomento si può dire che prenda il posto della vecchia traccia e altro non è che un gigantesco ombrello sotto il quale ognuno deve dimostrare di sapersi muovere con destrezza. Non è errato sostenere che l’argomento sia in buona sostanza la trascrizione del titolo di un intero capitolo (o più di un capitolo) del manuale di storia o del Baldi: la poesia crepuscolare, l’età giolittiana, il futurismo, il fascismo e la seconda guerra mondiale. Talora l’argomento prescelto è talmente vasto da riassumere l’intero programma dell’ultimo anno!  ( Es: “La memoria”) .
Le consegne impongono di scegliere di svolgere l’argomento proposto in forma di saggio breve, ma lasciano aperta l’ipotesi di svolgere lo stesso argomento sotto forma di articolo di giornale. Le difficoltà maggiori consistono nel porre l’accento su ciò che distingue l’articolo dal s.b. La differenza, poco chiara talora nella formulazione stessa del legislatore e nella bibliografia esistente, turba il sonno di noi tutti, studenti e insegnanti. Ma è evidente a chiunque che altra cosa è spiegare chi era D’Annunzio e quale era la sua poetica a un destinatario che sia il lettore del quotidiano “Il Centro” nella cronaca di Pescara per celebrare una targa appena apposta su una abitazione in cui il vate ebbe a soggiornare; altra cosa è spiegare chi era D’Annunzio al lettore di una rivista di argomento culturale specialistico come potrebbe essere, supponiamo, "Nuova Antologia”. Ma questo lo vedremo tra poco.
Un’ultima precisazione: attenzione a non confondere argomento e titolo. Il candidato dovrà dimostrare di sapersi muovere con destrezza dentro l’ambito prescelto, ma è totalmente libero di ritagliarsi un suo spazio personale e di scegliere, all’interno dell’argomento dato, una strada tutta sua per affrontarlo. Libero sì, ma a patto che alla fine sia lui a scegliere un titolo per il suo elaborato: titolo che naturalmente dovrà essere premiato tanto più sarà congruente con il ragionamento svolto.
In sintesi ogni consegna deve contenere, oltre ai documenti:

argomento
lunghezza
titolo.





VITTORIO ALFIERI : La vita da esso stesso scritta





Epoca II- Adolescenza
(Abbraccia otto anni d'ineducazione.)


CAPITOLO PRIMO


Partenza dalla casa materna, ed ingresso
nell'Accademia di Torino, e descrizione di essa.


Eccomi or dunque per le poste correndo a quanto più si poteva; in grazia che io al pagar della prima posta aveva intercesso presso al pagante fattore a favore del primo postiglione per fargli dar grassa mancia; il che mi avea tosto guadagnato il cuor del secondo. Onde costui andava come un fulmine, accennandomi di tempo in tempo con l'occhio e un sorriso, che gli farei anche dare lo stesso dal fattore; il quale per esser egli vecchio ed obeso, esauritosi nella prima posta nel raccontarmi delle sciocche storiette per consolarmi, dormiva allora tenacissimamente e russava come un bue. Quel volar del calesse mi dava intanto un piacere, di cui non avea mai provato l'eguale; perché nella carrozza di mia madre, dove anche di radissimo avea posto il sedere, si andava di un quarto di trotticello da far morire; ed anche in carrozza chiusa, non si gode niente dei cavalli; ma all'incontro nel calesse nostro italiano uno ci si trova quasi su la groppa di essi, e si gode moltissimo anche della vista del paese. Così dunque di posta in posta, con una continua palpitazione di cuore pel gran piacere di correre, e per la novità degli oggetti, arrivai finalmente a Torino verso l'una o le due dopo mezzo giorno. Era una giornata stupenda, e l'entrata di quella città per la Porta Nuova, e la piazza di San Carlo fino all'Annunziata presso cui abitava il mio zio, essendo tutto quel tratto veramente grandioso, e lietissimo all'occhio, mi aveva rapito, ed era come fuor di me stesso. Non fu poi così lieta la sera; perché ritrovandomi in nuovo albergo, tra visi sconosciuti, senza la madre, senza il maestro, con la faccia dello zio che appena aveva visto una altra volta, e che mi riusciva assai meno accarezzante, e amoroso della madre; tutto questo mi fece ricadere nel dolore, e nel pianto, e nel desiderio vivissimo di tutte quelle cose da me abbandonate il giorno antecedente. Dopo alcuni dì, avvezzatomi poi alla novità, ripigliai e l'allegria e la vivacità in un grado assai maggiore ch'io non avessi mostrata mai; ed anzi fu tanta, che allo zio parve assai troppa; e trovandomi essere un diavoletto, che gli metteva a soqquadro la casa, e che per non avere maestro che mi facesse far nulla, io perdeva assolutamente il mio tempo, in vece di aspettare a mettermi in Accademia all'ottobre come s'era detto, mi v'ingabbiò fin dal dì primo d'agosto dell'anno 1758.
In età di nove anni e mezzo io mi ritrovai dunque ad un tratto traspiantato in mezzo a persone sconosciute, allontanato affatto dai parenti, isolato, ed abbandonato per così dire a me stesso; perché quella specie di educazione pubblica (se chiamarla pur vorremo educazione) in nessuna altra cosa fuorché negli studi, e anche Dio sa come, influiva su l'animo di quei giovinetti. Nessuna massima di morale mai, nessun ammaestramento della vita ci veniva dato. E chi ce l'avrebbe dato, se gli educatori stessi non conoscevano il mondo né per teoria né per pratica?
Era quell'Accademia un sontuosissimo edificio diviso in quattro lati, in mezzo di cui un immenso cortile. Due di essi lati erano occupati dagli educandi; i due altri lati dal Regio teatro, e dagli archivi del re. In faccia a questi per l'appunto era il lato che occupavamo noi, chiamati del Secondo e Terzo Appartamento; in faccia al teatro stavano quei del Primo, di cui parlerò a suo tempo. La galleria superiore del lato nostro, chiamavasi Terzo Appartamento, ed era destinata ai più ragazzi, ed alle scuole inferiori; la galleria del primo piano, chiamata Secondo, era destinata ai più adulti; de' quali una metà od un terzo studiavano all'Università, altro edificio assai prossimo all'Accademia; gli altri attendevano in casa agli studi militari. Ciascuna galleria conteneva almeno quattro camerate di undici giovani ciascheduna, cui presiedeva un pretuccio chiamato assistente, per lo più un villan rivestito, a cui non si dava salario nessuno; e con la tavola sola e l'alloggio si tirava innanzi a studiare anch'egli la teologia, o la legge all'Università; ovvero se non erano anch'essi studenti, erano dei vecchi ignorantissimi e rozzissimi preti. Un terzo almeno del lato ch'io dissi destinato al Primo Appartamento, era occupato dai paggi del re in numero di venti o venticinque, che erano totalmente separati da noi, all'angolo opposto del vasto, cortile, ed attigui agli accennati archivi.
Noi dunque giovani studenti eramo assai male collocati così: fra un teatro, che non ci toccava di entrarvi se non se cinque o sei sere in tutto il carnovale; fra i paggi, che atteso il servizio di corte, le caccie, e le cavalcate, ci pareano godere di una vita tanto più libera e divagata della nostra; e tra i forestieri finalmente che occupavano il Primo Appartamento, quasi ad esclusione dei paesani, essendo una colluvie di tutti i boreali, inglesi principalmente, russi, e tedeschi, e d'altri stati d'Italia; e questa era più una locanda che una educazione, poiché a niuna regola erano astretti, se non se al ritrovarsi la sera in casa prima della mezza notte. Del resto, andavano, e a corte, e ai teatri, e nelle buone e nelle cattive compagnie, a loro intero piacimento. E per supplizio maggiore di noi poverini del Secondo e Terzo Appartamento, la distribuzione locale portava che ogni giorno per andare alla nostra cappella alla messa, ed alle scuole di ballo, e di scherma, dovevamo passare per le gallerie del Primo Appartamento, e quindi vederci continuamente in su gli occhi la sfrenata e insultante libertà di quegli altri; durissimo paragone colla severità del nostro sistema, che chiamavamo andantemente galera. Chi fece quella distribuzione era uno stolido, e non conosceva punto il cuore dell'uomo; non si accorgendo della funesta influenza che doveva avere in quei giovani animi quella continua vista di tanti proibiti pomi.
Primi, studi, pedanteschi, e malfatti.
Io era dunque collocato nel Terzo Appartamento, nella camerata detta di mezzo; affidato alla guardia di quel servitore Andrea, che trovatosi così padrone di me senza avere né la madre, né lo zio, né altro mio parente che lo frenasse, diventò un diavolo scatenato. Costui dunque mi tiranneggiava per tutte le cose domestiche a suo pieno arbitrio. E così l'assistente poi faceva di me, come degli altri tutti, nelle cose dello studio, e della condotta usuale. Il giorno dopo il mio ingresso nell'Accademia, venne da quei professori esaminata la mia capacità negli studi, e fui giudicato per un forte quartano, da poter facilmente in tre mesi di assidua applicazione entrare in terza. Ed in fatti mi vi accinsi di assai buon animo, e conosciuta ivi per la prima volta l'utilissima gara dell'emulazione, a competenza di alcuni altri anche maggiori di me per età, ricevuto poi un nuovo esame nel novembre, fui assunto alla classe di terza. Era il maestro di quella un certo don Degiovanni; prete, di forse minor dottrina del mio buon Ivaldi; e che aveva inoltre assai minore affetto e sollecitudine per i fatti miei, dovendo egli badare alla meglio, e badandovi alla peggio, a quindici, o sedici suoi scolari, che tanti ne avea.
Tirandomi così innanzi in quella scoluccia, asino, fra asini, e sotto un asino, io vi spiegava il Cornelio Nipote, alcune egloghe di Virgilio, e simili; vi si facevano certi temi sguaiati e sciocchissimi; talché in ogni altro collegio di scuole ben dirette, quella sarebbe stata al più più una pessima quarta. Io non era mai l'ultimo fra i compagni; l'emulazione mi spronava finché avessi o superato o agguagliato quel giovine che passava per il primo; ma pervenuto poi io al primato, tosto mi rintiepidiva e cadea nel torpore. Ed era io forse scusabile, in quanto nulla poteva agguagliarsi alla noia e insipidità di così fatti studi. Si traducevano le Vite di Cornelio Nipote, ma nessuno di noi, e forse neppure il maestro, sapeva chi si fossero stati quegli uomini di cui si traducevan le vite, né dove fossero i loro paesi, né in quali tempi, né in quali governi vivessero, né cosa si fosse un governo qualunque. Tutte le idee erano o circoscritte, o false, o confuse; nessuno scopo in chi insegnava; nessunissimo allettamento in chi imparava. Erano insomma dei vergognosissimi perdigiorni; non c'invigilando nessuno; o chi lo faceva, nulla intendendovi. Ed ecco in qual modo si viene a tradire senza rimedio la gioventù………………………………………………………

Proseguimento di viaggi.
Io sempre incalzato dalla smania dell'andare, benché mi trovassi assai bene in Stockolm, volli partirne verso il mezzo maggio per la Finlandia alla volta di Pietroborgo. Nel fin d'aprile aveva fatto un giretto sino ad Upsala, famosa università, e cammin facendo aveva visitate alcune cave del ferro, dove vidi varie cose curiosissime; ma avendole poco osservate, e molto meno notate, fu come se non le avessi mai vedute. Giunto a Grisselhamna, porticello della Svezia su la spiaggia orientale, posto a rimpetto dell'entrata del golfo di Botnia, trovai da capo l'inverno, dietro cui pareva ch'io avessi appostato di correre. Era gelato gran parte di mare, e il tragitto dal continente nella prima isoletta (che per cinque isolette si varca quest'entratura del suddetto golfo) attesa l'immobilità totale dell'acque, riusciva per allora impossibile ad ogni specie di barca. Mi convenne dunque aspettare in quel tristo luogo tre giorni, finché spirando altri venti cominciò quella densissima crostona a screpolarsi qua e là, e far crich, come dice il poeta nostro, quindi a poco a poco a disgiungersi in tavoloni galleggianti, che alcuna viuzza pure dischiudevano a chi si fosse arrischiato d'intromettervi una barcuccia. Ed in fatti il giorno dopo approdò a Grisselhamna un pescatore venente in un battelletto da quella prima isola a cui doveva approdar io, la prima; e disseci il pescatore che si passerebbe, ma con qualche stento. Io subito volli tentare, benché avendo una barca assai più spaziosa di quella peschereccia, poiché in essa vi trasportava la carrozza, l'ostacolo veniva ad essere maggiore; ma però era assai minore il pericolo, poiché ai colpi di quei massi nuotanti di ghiaccio dovea più robustamente far fronte un legno grosso che non un piccolo. E così per l'appunto accadde. Quelle tante galleggianti isolette rendevano stranissimo l'aspetto di quell'orrido mare che parea piuttosto una terra scompaginata e disciolta, che non un volume di acque; ma il vento essendo, la Dio mercè, tenuissimo, le percosse di quei tavoloni nella mia barca riuscivano piuttosto carezze che urti; tuttavia la loro gran copia e mobilità spesso li facea da parti opposte incontrarsi davanti alla mia prora, e combaciandosi, tosto ne impedivano il solco; e subito altri ed altri vi concorreano, ed ammontandosi facean cenno di rimandarmi nel continente. Rimedio efficace ed unico, veniva allora ad essere l'ascia, castigastrice d'ogni insolente. Più d'una volta i marinai miei, ed anche io stesso scendemmo dalla barca sovra quei massi, e con delle scuri si andavano partendo, e staccando dalle pareti del legno, tanto che desser luogo ai remi e alla prora; poi risaltati noi dentro coll'impulso della risorta nave, si andavano cacciando dalla via quegli insistenti accompagnatori; e in tal modo si navigò il tragitto primo di sette miglia svezzesi in dieci e più ore. La novità di un tal viaggio mi divertì moltissimo; ma forse troppo fastidiosamente sminuzzandolo io nel raccontarlo, non avrò egualmente divertito il lettore. La descrizione di cosa insolita per gl'italiani, mi vi ha indotto. Fatto in tal guisa il primo tragitto, gli altri sei passi molto più brevi, ed oltre ciò oramai fatti più liberi dai ghiacci, riuscirono assai più facili. Nella sua salvatica ruvidezza quello è un dei paesi d'Europa che mi siano andati più a genio, e destate più idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell'atmosfera, ove ti parrebbe quasi esser fuor del globo…………………………………………………………………………………………………………………



Epoca IV - cap.5
( Degno amore mi allaccia finalmente per sempre )


In quell'autunno dunque sendomi da un mio conoscente proposto più volte d'introdurmivi, io credutomi forte abbastanza mi arrischiai di accostarmivi; né molto andò ch'io mi trovai quasi senza avvedermene preso. Tuttavia titubando io ancora tra il sì e il no di questa fiamma novella, nel decembre feci una scorsa a Roma per le poste a cavallo; viaggio pazzo e strapazzatissimo, che non mi fruttò altro che d'aver fatto il sonetto di Roma, pernottando in una bettolaccia di Baccano, dove non mi riuscì mai di poter chiuder occhio. L'andare, lo stare, e il tornare, furono circa dodici giorni. Rividi nelle due passate da Siena l'amico Gori, il quale non mi sconsigliò da quei nuovi ceppi, in cui già era più che un mezzo allacciato; onde il ritorno in Firenze me li ribadì ben tosto per sempre. Ma l'approssimazione di questa mia quarta ed ultima febbre del cuore si veniva felicemente per me manifestando con sintomi assai diversi dalle tre prime. In quelle io non m'era ritrovato allora agitato da una passione dell'intelletto la quale contrapesando e frammischiandosi a quella del cuore venisse a formare (per esprimermi col poeta) un misto incognito indistinto, che meno d'alquanto impetuoso e fervente, ne riusciva però più profondo, sentito, e durevole. Tale fu la fiamma che da quel punto in poi si andò a poco a poco ponendo in cima d'ogni mio affetto e pensiero, e che non si spegnerà oramai più in me se non colla vita. Avvistomi in capo a due mesi che la mia vera donna era quella, poiché invece di ritrovare in essa, come in tutte le volgari donne, un ostacolo alla gloria letteraria, un disturbo alle utili occupazioni, ed un rimpicciolimento direi di pensieri, io ci ritrovava e sprone e conforto ed esempio ad ogni bell'opera; io, conosciuto e apprezzato un sì raro tesoro, mi diedi allora perdutissimamente a lei. E non errai per certo, poiché più di dodici anni dopo, mentr'io sto scrivendo queste chiacchiere, entrato oramai nella sgradita stagione dei disinganni, vieppiù sempre di essa mi accendo quanto più vanno per legge di tempo scemando in lei quei non suoi pregi passeggieri della caduca bellezza. Ma in lei si innalza, addolcisce, e migliorasi di giorno in giorno il mio animo; ed ardirò dire e creder lo stesso di essa, la quale in me forse appoggia e corrobora il suo.


 
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