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SENECA : TRADUZIONI
dalle " Epistulae ad Lucilium "
LETTERE A LUCILIO - LIBRO PRIMO ( Vindica te tibi)
I,1
1 Comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell'agire diversamente dal dovuto. 2 Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l'altro la vita se ne va. 3 Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l'unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire.
4 Ti chiederai forse come mi comporti io che ti do questi consigli. Te lo dirò francamente: tengo il conto delle mie spese da persona prodiga, ma attenta. Non posso dire che non perdo niente, ma posso dire che cosa perdo e perché e come. Sono in grado di riferirti le ragioni della mia povertà. Purtroppo mi accade come alla maggior parte di quegli uomini caduti in miseria non per colpa loro: tutti sono pronti a scusarli, nessuno a dar loro una mano. 5 E allora? Una persona alla quale basta quel poco che le rimane, non la stimo povera; ma è meglio che tu conservi tutti i tuoi averi e comincerai a tempo utile. Perché, come dice un vecchio adagio: "È troppo tardi essere sobri quando ormai si è al fondo." Al fondo non resta solo il meno, ma il peggio. Stammi bene.
RECEDE IN TE IPSE
7 …Va tenuto lontano dalla folla l'animo debole e poco saldo nel bene: è facile passare dalla parte dei più. Una massa dissimile avrebbe potuto strappare i costumi (principi) persino a Socrate, Catone, Lelio; nessuno di noi, nel momento in cui cerchiamo di accordare il nostro spirito, può resistere alla pressione dei vizi che arrivano con grande seguito.
Un solo esempio di mollezza o di avarizia fa molto male: un commensale dedito ai piaceri a poco a poco ci rende fiacchi e molli, un vicino ricco incita il desiderio, un compagno malvagio, attacca la sua ruggine (contamina anche un uomo semplice e puro: che cosa pensi che succeda a quei caratteri contro i quali fa impeto tutta una folla?E' necessario che o li imiti o li odi. Ma sono da evitare l'uno e l'altro (estremo): non devi assimilarti ai malvagi, perché sono molti, né essere nemico di molti, perché sono dissimili. Ritirati in te stesso per quanto puoi; frequenta le persone che possono renderti migliore e accogli quelli che puoi rendere migliori. Il vantaggio è reciproco perché mentre gli uomini insegnano, imparano. Non c'è ragione per cui il desiderio di gloria debba spingerti a esibire a tutti il tuo ingegno in mezzo alla folla, con la voglia di tenere pubbliche letture o di dissertare; ti consiglierei di agire così, se tu avessi merce adatta alla massa, ma non c'è nessuno in grado di capirti.
Forse qualcuno, uno o due capiranno, e tu dovrai formarlo ed educarlo perché ti possa capire. "Ma allora, per chi ho imparato tutto questo?" Non è il caso che tu tema di aver perso il tuo tempo, se hai imparato per te….
SERVI SUNT IMMO HOMINES
Ho appreso volentieri da costoro, che provengono da te, che tu vivi in familiarità con i tuoi schiavi: questo si addice alla tua saggezza ed alla tua educazione. "Sono schiavi" - ma sono anche uomini. "Sono schiavi" - ma sono anche compagni di stanza. "Sono schiavi" - ma anche umili amici. "Sono schiavi" - ma anche compagni di schiavitù, se pensi che la fortuna ha egual potere su entrambi. Così rido di coloro, che ritengono disdicevole cenare con il proprio schiavo: perchè, se non che una consuetudine superba impone intorno al padrone che cena, una folla di schiavi ritti in piedi? Egli mangia più di quanto può contenere ed appesantisce con la sua mostruosa avidità il ventre teso ed ormai disabituato al suo compito di ventre, al punto che rigetta tutto con maggior sforzo di quanto lo ingoiò: invece agli schiavi sventurati non è concesso muovere le labbra neppure per questo, per parlare. La frusta reprime ogni mormorio e neppure i rumori fortuiti vengono sottratti alle frustate, la tosse, gli starnuti ed i singhiozzi: il silenzio interrotto da una qualunque voce è pagato con un gran male; tutta la notte rimangono in piedi a digiuno e muti. così accade che parlino (male) del padrone costoro ai quali non è concesso parlare apertamente al padrone. Invece quelli che non solo potevano parlare davanti ai padroni, e avevano con loro una conversazione amichevole, ai quali non veniva cucita la bocca, erano pronti a dare la propria testa per il padrone, a deviare verso il proprio capo il pericolo imminente: parlavano ai banchetti, ma tacevano sotto tortura.
da " De brevitate vitae : GLI OCCUPATI ( XII)
Chiedi forse chi io definisco affaccendati? Non pensare che io bolli come tali solo quelli che soltanto cani aizzati riescono a cacciar fuori dalla basilica12, quelli che vedi esser stritolati o con maggior lustro nella propria folla [di clienti] o più vergognosamente il quella [dei clienti] altrui, quelli che gli impegni spingono fuori dalle proprie case per schiacciarli con gli affari altrui, o che l'asta del pretore fa travagliare con un guadagno disonorevole e destinato un giorno ad incancrenire13. Il tempo libero di alcuni è tutto impegnato: nella loro villa o nel loro letto, nel bel mezzo della solitudine, benché si siano isolat da tutti, sono fastidiosi a se stessi: la loro non deve definirsi una vita sfaccendata ma un inoperoso affaccendarsi. Puoi chiamare sfaccendato chi dispone in ordine con minuziosa pignoleria bronzi di Corinto, pregiati per la passione di pochi, e spreca la maggior parte dei giorni tra laminette rugginose? Chi in palestra (infatti, che orrore!, neppur romani sono i vizi di cui soffriamo) siede come spettatore di ragazzi che lottano? Chi divide le mandrie dei propri giumenti in coppie di uguale età e colore? Chi nutre gli atleti (giunti) ultimi? E che? Chiami sfaccendati quelli che passano molte ore dal barbiere, mentre si estirpa qualcosa che spuntò nell'ultima notte, mentre si tiene un consulto su ogni singolo capello, mentre o si rimette a posto la chioma in disordine o si sistema sulla fronte da ambo i lati quella rada? Come si arrabbiano se il barbiere è stato un po' disattento, come se tosasse un uomo! Come si irritano se viene tagliato qualcosa dalla loro criniera, se qualcosa è stato mal acconciato, se tutto non ricade in anelli perfetti! Chi di costoro non preferisce che sia in disordine lo Stato piuttosto che la propria chioma? Che non sia più preoccupato della grazia della sua testa che della sua incolumità? Che non preferisca essere più elegante che dignitoso? Questi tu definisci sfaccendati, affaccendati tra il pettine e lo specchio? Quelli che sono dediti a comporre, sentire ed imparare canzoni, mentre torcono in modulazioni di ritmo molto modesto la voce, di cui la natura rese il corretto cammino il migliore e il più semplice, le cui dita cadenzanti suonano sempre qualche carme dentro di sé, e di cui si ode il silenzioso ritmo quando si rivolgono a cose serie e spesso anche tristi? Costoro non hanno tempo libero, ma occupazioni oziose. Di certo non annovererei i banchetti di costoro tra il tempo libero, quando vedo con quanta premura dispongono l'argenteria, con quanta cura sistemano le tuniche dei loro amasi14, quanto siano trepidanti per come il cinghiale vien fuori dalle mani del cuoco, con quanta sollecitudine i glabri15 accorrono ai loro servigi ad un dato segnale, con quanta maestria vengano tagliati gli uccelli in pezzi non irregolari, con quanto zelo infelici fanciulli detergano gli sputi degli ubriachi: da essi si cerca fama di eleganza e di lusso e a tal punto li seguono le loro aberrazioni in ogni recesso della vita, che non bevono né mangiano senza ostentazione. Neppure annovererai tra gli sfaccendati coloro che vanno in giro sulla portantina o sulla lettiga e si presentano all'ora delle loro passeggiate come se non gli fosse permesso rinunziarvi, e che un altro deve avvertire quando si devono lavare, quando devono nuotare o cenare: e a tal punto illanguidiscono in troppa fiacchezza di un animo delicato, da non potersi accorgere da soli se hanno fame. Sento che uno di questi delicati - se pure si può chiamare delicatezza il disimparare la vita e la consuetudine umana - , trasportato a mano dal bagno e sistemato su una portantina, abbia detto chiedendo: "Sono già seduto?". Tu reputi che costui che ignora se sta seduto sappia se è vivo, se vede e se è sfaccendato? Non è facile dire se mi fa più pena se non lo sapeva o se fingeva di non saperlo. Certamente di molte cose soffrono in realtà la dimenticanza, ma di molte anche la simulano; alcuni vizi li allettano come oggetto di felicità; sembra che il sapere cosa fai sia tipico dell'uomo umile e disprezzato; ora va e credi che i mimi inventano molte cose per biasimare il lusso. Certo trascurano più di quanto rappresentano ed è apparsa tanta abbondanza di vizi incredibili in questo solo secolo, che ormai possiamo dimostrare la trascuratezza dei mimi. Vi è qualcuno che si consuma a tal punto nelle raffinatezze da credere ad un altro se è seduto! Dunque costui non è sfaccendato, dagli un altro nome: è malato, anzi è morto; sfaccendato è quello che è consapevole del suo tempo libero. Ma questo semivivo, a cui è necessaria una spia che gli faccia capire lo stato del suo corpo, come può costui essere padrone di alcun momento?
DE IRA , V, 13. 1-4 ( L'ira di Socrate)
TESTO LATINO
PETRONIO-SATYRICON
“Ritratto di Fortunata”
37.Non ce la facevo più a gustarmi niente, e allora a collo torto verso di lui, per saperne quanto più potevo, comincio a prendere alla lontana quelle storielle,e a chiedergli chi fosse la donna che era sempre di corsa in un continuo andirivieni. ’È la moglie di Trimalchione – risponde - si chiama Fortunata, misura il denaro a moggi. E prima chi era prima.? Una, il tuo angelo mi perdoni,che neanche un tozzo di pane avresti accettato dalle sue mani. Adesso, né perché né per come, è salita in cielo, è il tuttofare di Trimalchione. Insomma, se a mezzogiorno gli dicesse che è buio pesto, lui ci crederebbe. Lui stesso quanto possiede mica lo sa, ricco sfondato com’è, ma quella troiaccia vede tutto prima di tutti, quando a te neanche ti passa per la mente. Non beve, non sperpera, testa sulle
spalle, guardala: un mucchio d’oro. Ma ha una lingua che taglia e cuce, a letto una gazza, chi ama ama, chi non ama non ama. Lui Trimalchione, ha terre quanto volano i nibbi e soldi che partoriscono soldi. Nel casotto del suo portiere c’è più argento di quanto un altro ce n’ha in tutto il patrimonio. . Circa la servitù, lasciamo perdere: ad aver visto in faccia il padrone, porcaccia la miseria, ce ne sarà sì e no uno su dieci. Sta di fatto che questi scrocconi lui se li rivolta come vuole.
67 .«Ma dimmi un po', Gaio, te ne prego, com'è che Fortunata non è sdariata a tavola ?». «Come? Non lo sai» gli risponde Trimalcione «che quella, finché non ha rimesso a posto tutta l'argenteria e distribuito gli avanzi ai servi, non butta giù nemmeno una goccia d'acqua?». «Va bene» incalza Abinna, «ma se lei non si fa vedere, io alzo il culo e tolgo il disturbo». E aveva già fatto il gesto di alzarsi, quando, su ordine del padrone, tutta la servitù si mette a chiamare Fortunata quattro volte e più. Così lei arriva, con il vestito tenuto su da una cintura giallina che le si vedeva sotto la tunica color ciliegia, i cerchietti intrecciati alle caviglie e le scarpette dorate Allora, asciugandosi le mani con un fazzoletto che aveva al collo, si va a sdraiare accanto a Scintilla, la moglie di Abinna, e mentre questa batte le mani, la sbaciucchia dicendo: «Te, beato chi ti vede!».
Tra un discorso e l'altro, si arriva al punto che Fortunata si sfila i braccialetti dalle braccia grassissime e li mostra a Scintilla tutta presa dalla cosa. Poi si toglie anche i cerchietti dalle caviglie e la reticella da capelli che a sua detta era di oro puro. Trimalcione segue la scena e poi, alla fine, si fa portare il tutto dicendo: «Ecco qua le catene delle donne! E noi, baccalà, ci facciamo ripulire fino all'osso. Questo qui mi sa che pesa almeno sei libbre e mezzo. Però un bracciale da dieci libbre ce l'ho anch'io, che me lo son fatto fare coi millesimi di Mercurio». Poi, per far vedere che non raccontava frottole, si fa portare una bilancia e pretende che i commensali se la passino per verificare il peso del bracciale. Ma Scintilla non è da meno, perché si toglie dal collo un astuccio in oro da lei chiamato Felicione e ne estrae due orecchini che porge a Fortunata, dicendole: «Questi sono un regalo del mio signor marito che di più belli non ce ne sono». «Sfido io!» sbotta Abinna. «Per farti comprare quegli affari di vetro, mi hai portato via anche la camicia! Stai pur certa che se avessi una figlia, le taglierei i lobi delle orecchie. Se non ci fossero le donne, ti tirebbero dietro la roba. E invece, guarda un po', ci tocca pisciare caldo e bere freddo».
Intanto le due donne, toccate nel vivo, mezze brille com'erano già, se la ridono e si sbaciucchiano, mentre una elogia il suo impegno di madre di famiglia, e l'altra si lamenta delle scappatelle del marito e di quanto lui la trascuri. E mentre se ne stanno così appiccicate, Abinna, senza farsi vedere, si alza e tira Fortunata per i piedi, facendola finire lunga e distesa sul letto. «O porca...» urla quella con il vestito che svolazza fin sopra le ginocchia. Poi però si ricompone e si va a buttare tra le braccia di Scintilla, nascondendosi con il fazzoletto la faccia resa ancora più volgare dal rossore
QUINTILIANO
Istitutio Oratoria I, 2 , 1-5 (solo italiano) ; 18-22 (in latino)
I, 2, 1-5 QUINTILIANO/ ISTITUTIO
1. Dunque, nato il figlio il padre concepisca la migliore (otimam) speranza riguardo a lui: così che dall'inizio (a principiis) diventi migliore.
È falsa infatti la lamentela (querela) che sia concessa a pochissimi uomini la forza (vim) di percepire (= apprendere) le cose che vengono insegnate (quae tradantur), mentre (= al contrario, vero) la maggioranza (plerosque) perderebbe tempo e fatica (laborem) per tarda intelligenza (letteralmente: per carenza di intelligenza).
Infatti al contrario (contra) potresti trovare (cong. potenziale) moltissime persone sia abili (faciles) nell'inventare sia pronte nell'apprendere. Certamente (quippe) ciò è naturale per l'uomo, e (ac) come (sicut) gli uccelli nascono (gignuntur) per il volo, i cavalli per la corsa, le fiere per la crudeltà, così (ita) a noi è propria (sono proprie) l'attività e il movimento (agitatio atque sollertia) della mente, per cui si crede che l'origine dell'anima sia divina (celeste).
Non si trova nessuno che non abbia raggiunto con l'applicazione (studio, complemento di mezzzo) nessun risultato. Chi è convinto di ciò, non appena (protinus ut) diventerà (factus erit) genitore, presti la massima cura al figlio (curam impendere = prestare cura).
4.Prima di tutto le nutrici parlino correttamente (lett: con il dativo di possesso: alle nutrici non sia un parlare scorretto) e la moralità (morum ratio) certamente in queste cose (in his) senza dubbio (haud dubie) è prioritaria, tuttavia parlino anche con rettitudine (correttezza grammaticale)
Quelle cose che il bambino inizialmente (primum) ascolterà, cercherà di ripetere le parole di queste imitando (ablativo strumentale: per mezzo dell'imitazione)
In realtà (vero) nei genitori potrei sperare che ci fosse quanto più possibile (quam plurimum) di cultura (eruditionis).
E non parlo solo di padri (complemento di argomento, de patribus): infatti sappiamo (accepimus) che la madre Cornelia contribuì (contulisse) molto all'eloquenza dei Gracchi. Tuttavia i genitori non istruiti (indocti) non abbiano minore cura di istruire (docendi) i figli, ma siano più diligenti (magis diligentes, forma tarda) verso le altre cose (ad cetera).
Istitutio Oratoria XII 1, 1-3 Vir bonus dicendi peritus
1. L'oratore che ci siamo proposti di formare deve essere( sit=sia) quindi colui che da Marco Porcio Catone è definito " un uomo onesto esperto del parlare" , ma in verità prima di tutto ( utique vir bonus ) (deve essere) uomo onesto,cosa che da un lato egli (Catone) pose per prima ( posuit prius) e che dall'altro per natura è preferibile e migliore ( potius ac maius est): e questo non solo per il fatto che, se quella forza del parlare (vis dicendi) fosse fornita
( instruxerit ) alla cattiveria,allora niente sarebbe più pericoloso dell'eloquenza per gli affari pubblici e privati, e noi stessi che abbiamo intrapreso la fatica (conati sumus) ,per quello che riusciamo, di aggiungere qualcosa alla capacità oratoria ( conferre aliquid ad facultatem dicendi) avremmo pessimi meriti riguardo alle questioni umane se preparassimo queste armi per un brigante e non per un soldato.
2. Perchè parlo di noi? La natura stessa delle cose proprio nella qualità ( in eo) con cui sembra aver compiaciuto ( indulsisse) l'uomo e averci distinto dagli altri animali ,se avesse inventato (invenit) la capacità oratoria come complice dei misfatti ( socia scelerum), contraria alla giustizia (adversam innocentiae) , nemica della verità ( hostem veritatis) , non sarebbe stata madre bensì matrigna (noverca) . Sarebbe infatti stato meglio nascere muti o privi di ogni ragione piuttosto che ( satius quam) rivolgere i doni della provvidenza alla rovina reciproca.
3. Ma, secondo me, la questione va ancora più lontano: non solo dico che è necessario(oportere) che l'oratore sia uomo onesto,ma affermo anzi che, nessuno che non sia onesto (nisi virum bonum) potrà essere oratore. Infatti , certamente non riconosceresti facoltà di comprensione a coloro che , posti davanti al bivio tra onestà e disonestà, preferiscono seguire la via peggiore, nè riconosceresti saggezza, dal momento che , non avendo previsto l'esito degli avvenimenti ( a semet ipsis inproviso rerum exitu), spesso rimangono invischiati ( induantur ) nei terribili castighi delle leggi e sempre in quelli della cattiva coscienza.
TACITO
da "Agricola"
Una figura esemplare di uomo e di condottiero
G.I.Agricola,nato nell'antica e nobile colonia dei Foroiuliensi ( Frejius , fra Nizza e Marsiglia) , ebbe entrambi gli antenati procuratori dei Cesari , cosa che è una nobiltà equestre. Suo padre era Giulio Grecino (dativo di possesso) dell'ordine senatorio, famoso per l'inclinazione all'eloquenza e alla filosofia, e che meritò ,per queste sue stesse virtu', la tracotanza di Caligola, infatti ricevette istruzioni ( fu ordinato ) di accusare M.Silano (suocero di Caligola) e , poichè si era rifiutato ( fece cenno di no ) , fu ucciso .
La madre era G.Procilla , di rara castità. Cresciuto fra le amorose cure di lei ( nel seno e nell'affetto = endiadi ) , trascorse l'infanzia e l'adolescenza nell'esercizio di ogni dottrina delle nobili discipline. Oltre la natura onesta e leale di lui stesso, lo allontanava dalle lascivie dei viziosi il fatto che , subito, giovinetto , ebbe (la città di ) Marsiglia come sede e maestra di studi, località ( luogo) assortita e ben dosata di raffinatezza greca e parsimonia provinciale.
Ricordo a memoria che egli stesso era solito raccontare che lui , nella prima gioventù, aveva coltivato ( si era immerso in ) lo studio della filosofia molto più di quello che sarebbe stato concesso a un romano e a un senatore , se la prudenza della madre non avesse frenato ( temperato) il suo animo acceso e divampante .
Di certo il carattere ( la genialità) sublime ed eccelso ricercava più ardentemente che cautamente il fascinoso splendore (la bellezza e lo splendore = endiadi ) di una gloria eccelsa e grande .Subito la ragione e l'età lo placarono ( lo placò) e, cosa che è difficilissima, trattenne
(conservò) dalla filosofia la moderazione .
5. Ebbe le prime esperienze di vita militare in Britannia,con l'approvazione di Svetonio Paolino, comandante scrupoloso e prudente, che lo scelse a far parte del suo séguito. Agricola non si abbandonò mai a una vita sregolata, come di solito i giovani, che trasformano il servizio militare in un pretesto di dissolutezza, né approfittò della carica di tribuno e della scusante dell'inesperienza per godersi congedi e spassi; ma cercava di conoscere la provincia, farsi conoscere dai soldati,imparare da chi ne sapeva di più, s'impegnava a eguagliare i migliori senza farsi avanti per vanità o ritrarsi per paura: agiva con cautela circospezione. Mai come allora la Britannia si trovò in una situazione così critica: veterani trucidati, colonie incendiate, eserciti bloccati.
Si combatteva allora per la salvezza; per la vittoria si combatté più tardi.
E sebbene le scelte e il comando spettassero ad altri e benché il merito dell'esito finale e la gloria di aver riconquistato la provincia toccassero al comandante, il giovane Agricola ne uscì arricchito di competenza tecnica, di esperienza e più stimolato; nel suo animo penetrò la brama della gloria militare, invisa nei tempi in cui chi si fa strada è oggetto di malevola interpretazione e in cui dalla buona fama deriva pericolo non minore che dalla cattiva.
UNA FINE SOSPETTA
[43] La fine della sua vita fu per noi motivo di dolore, di tristezza per gli amici, ed anche per gli estranei e gli sconosciuti non fu priva di inquietudine. Anche la plebe ed il popolo, che normalmente pensa ad altro, si recava senza posa a casa sua e ne parlava nelle piazze e nei crocchi; e nessuno, dopo aver sentito della morte di Agricola, ne fu lieto o se ne dimenticò subito.
Aumentava la commiserazione la voce concorde che egli fosse stato avvelenato: non oserei affermarlo, non avendone alcuna prova.
D'altronde durante tutta la sua malattia, più spesso di quanto fosse consuetudine della dignità imperiale di chiedere notizie per mezzo di messi, accorsero i più intimi tra i medici e i primi tra i liberti, sia per sollecitudine sia per indagare. Era risaputo che perfino nell'ultimo giorno, per mezzo di appositi messi, venivano annunziati gli estremi istanti del morente, mentre nessuno credeva che venissero sollecitate notizie che avrebbe ascoltato con animo triste.
Tuttavia palesò un'espressione addolorata, libero ormai da sentimenti di odio e per dissimulare più facilmente la gioia che non il timore.
Era noto che, dopo la lettura del testamento di Agricola, con cui egli nominava Domiziano coerede dell'ottima moglie e della devotissima figlia, egli se ne sia rallegrato come per un tributo di stima e di riguardo.
Tanto la sua mente era corrotta e cieca per le costanti adulazioni, da ignorare che non viene nominato erede da un buon padre se non un cattivo principe.
[45] Agricola non vide la curia sotto assedio e il senato circondato dalle armi, e il massacro di tanti consolari nella medesima carneficina, l'esilio e la fuga di tante nobilissime matrone.
Fino ad allora Caro Mezio era giudicato per una sola vittoria, e le accuse di Messalino tuonavano entro la rocca albana, e Massa Bebio era già allora colpevole: ben presto le nostre mani condussero in carcere Elvidio ; la vista di Maurico e di Rustico ci ha macchiato; Senecione ci ha imbrattato col suo sangue innocente. Tuttavia Nerone distolse lo sguardo e comandò quei crimini, ma non vi assistette: la parte predominante delle nostre sventure sotto Domiziano era quella di vedere ed essere visti, quando i nostri sospiri fornivano materia di accuse, quando a far spiccare il pallore di tante persone bastava quel volto feroce e quel rossore con cui si difendeva contro la vergogna.
Fortunato tu, Agricola, non soltanto per la tua specchiata vita, ma anche per la tempestività della tua morte. Come testimoniano coloro che assistettero alle tue ultime parole, accettasti il tuo destino con fermezza e serenità, come per donare al principe l'innocenza, per quanto era nelle tue possibilità. Ma a me e a sua figlia, oltre al dolore per la perdita del genitore, accresce la tristezza il fatto che non ci sia toccato di assisterlo nella malattia, di sostenerlo mentre si spegneva, di saziarci della sua vista e del suo abbraccio. Avremmo certamente raccolto i suoi desideri e le sue parole, che avremmo infisso profondamente nel nostro animo.
Il nostro dolore, la nostra ferita, è questa, che egli ci è stato sottratto quattro anni prima, a causa di una così lunga assenza. Senza dubbio, o migliore dei genitori, col conforto della sua amatissima consorte tutto ti fu tributato a tuo onore: tuttavia sei stato pianto con troppe poche lacrime, e i tuoi occhi hanno anelato a qualcosa nell'estremo baleno.
UN MODELLO DI MORALITA'
Dalla " Germania "
18-19
Ciò nonostante là i matrimoni sono severi e non potresti lodare di più nessun altro aspetto delle loro tradizioni .Infatti, quasi soli tra i barbari, sono contenti di una sola moglie , eccetto per pochissimi i quali, non per sensualità ma per nobiltà ,sono spinti a matrimoni plurimi . La moglie non porta la dote al marito ma il marito la offre alla moglie .I genitori e i parenti intervengono ed esaminano i doni; doni (che non sono) non ricercati per il piacere della moglie, né con i quali possa adornarsi la novella sposa , ma buoi e il cavallo bardato con la framea e la spada.
In considerazione di questi doni viene accolta la moglie e in cambio ( a sua volta) essa stessa offre al marito alcune armi : è questo il supremo vincolo , questo l'arcano rito questi ritengono che siano gli dei coniugali. Perché la moglie non si ritenga esclusa dai pensieri (dalle aspirazioni) della virtù ed esente (extra) dai pericoli di guerra, nelle iniziali cerimonie (con cui inizia il ..) di matrimonio , ella si sente ammonita che viene come compagna di fatiche e di pericoli per soffrire e affrontare le stesse cose in pace , le stesse in guerra : questo i buoi accoppiati , questo il cavallo bardato, questo le armi consegnate indicano chiaramente. Così si deve vivere, così si deve morire : (queste cose ) ella riceve (sottint. admonetur ) siano consegnate intatte e degne ai figli, che le nuore le ricevano e nuovamente siano date ai nipoti.
Dunque trascorrono (la vita) barricate nel loro pudore, non corrotte da seduzioni di spettacoli o eccitamenti di banchetti. Uomini e donne sono ugualmente all'oscuro dei segreti della scrittura. (Sono) pochissimi, in una popolazione così numerosa, gli adultèri, e la loro punizione(è) immediata e affidata ai mariti (stessi): il marito, in presenza dei parenti, caccia di casa (la moglie), nuda (e) coi capelli tagliati, e la insegue frustandola(con la frusta ) per tutto il villaggio; infatti non (c'è) perdono per il pudore violato: (la donna adultera) non potrà trovare marito, né grazie alla bellezza, né grazie alla giovinezza, né grazie alle ricchezze. Là, infatti, nessuno ride dei vizi, e corrompere e farsi corrompere non si chiama moda. Anzi, meglio ancora (si comportano) quelle tribù in cui soltanto le vergini possono sposarsi e la speranza e il desiderio di maritarsi si appagano una volta sola. Così ricevono un solo marito, come un solo corpo e una sola vita, perché non (abbiano più) alcun pensiero (del genere) dopo (la morte del marito) , perché (in loro) non sopravviva il desiderio , perché non amino (nell'uomo) il marito, ma il matrimonio. Limitare il numero delle nascite o uccidere qualcuno dei figli cadetti è considerato delitto, e sono più efficaci là i buoni costumi che altrove le buone leggi.
TACITO – GERMANIA , 4-5
(Autoctonia dei Germani )
Io stesso sono d'accordo ( mi accosto) con le opinioni di coloro che ritengono che i popoli della Germania non si siano stati mescolati, con i matrimoni, con persone di altre razze e che siano rimasti una razza a sé stante ,pura e simile solo a se stessa.. Per questo motivo anche l'aspetto fisico, nonostante il gran numero di persone, è il medesimo per tutti: occhi fieri e azzurri, chiome rossastre, corpi imponenti e adatti solo all'attacco; la resistenza alla fatica e al lavoro (laboris atque operum: endiadi) non è invece la stessa, sopportano pochissimo la sete e il caldo, mentre sono abituati al freddo e alla povertà per il clima e per il suolo (poco fertile).
La terra, sebbene sia alquanto diversa nell'aspetto, nel suo complesso tuttavia è piena di orride selve e di desolate paludi, più umida nelle regioni rivolte verso le Gallie, più ventosa in quelle rivolte verso il Norico e la Pannonia; abbastanza fertile, inadatta agli alberi da frutto, feconda di bestiame, ma la maggior parte di piccola taglia. Nemmeno i buoi possiedono la loro solennità e la gloria della fronte: si compiacciono del loro numero e quelle sono le uniche e ricercatissime ricchezze. Non so se gli dei hanno negato loro l'oro e l'argento per benevolenza o per ostilità. Né tuttavia ho affermato che in Germania non esiste alcun filone di argento o di oro: chi difatti ha esplorato questo paese? Né sono assolutamente indeboliti dal loro possesso e uso al contrario di noi Romani. E' possibile vedere presso costoro dei vasi argentei, dati in dono ai loro capi e ambasciatori, non più costosi di quelli di terracotta; i popoli confinanti considerano di valore qualsiasi cosa in oro e argento per gli scambi commerciali, non conoscono e scelgono bene certe forme del nostro denaro: le tribù delle zone interne utilizzano il più semplice e più antico scambio delle merci( il baratto). Apprezzano il denaro vecchio e da lungo tempo noto e i bigati (monete d’argento) dentellati. Preferiscono anche l'argento piuttosto che l'oro, non per qualche particolare predilezione, bensì perché la disponibilità di pezzi d'argento rende più facile lo scambio di merci dozzinali e di poco valore.
IL QUINQUIENNIO FELICE
Annales XIII, 4
Comunque, conclusa la sua imitazione del dolore, entrò in curia e, dopo un preambolo sull'autorevolezza dei senatori e sul consenso dei soldati (alla sua nomina), ricordò i consigli e gli esempi che aveva per esercitare bene il potere e che la sua giovinezza si era formata lontano da guerre civili e discordie familiari; non provava rancori, offese, desiderio di vendetta. Delineò i principi del futuro principato, in cui voleva particolarmente evitare quei comportamenti, verso i quali l'ostilità era ancor viva e bruciante. (Dichiarò) infatti la sua intenzione di non essere giudice di tutte le cause, così da lasciar imperversare la prepotenza di pochi, chiusi entro un'unica casa accusatori e accusati; nessuna tolleranza ci sarebbe stata sotto il suo tetto alla venalità e all'intrigo; il palazzo e lo stato erano due cose diverse. Il senato poteva conservare le sue competenze, mentre l'Italia e le province dello stato dovevano ricorrere ai tribunali dei consoli, ai quali toccava dare accesso al senato; sua invece la responsabilità degli eserciti, a lui affidati.
IL PUNTO DI VISTA DEI GERMANI : IL DISCORSO DI CALGACO
Agricola,30
30. «Quando ripenso alle cause della guerra e alla terribile situazione in cui versiamo, nutro la grande speranza che questo giorno, che vi vede concordi, segni per tutta la Britannia l'inizio della libertà. Sì, perché per voi tutti qui accorsi in massa, che non sapete cosa significhi servitù,non c'è altra terra oltre questa e neanche il mare è sicuro,da quando su di noi incombe la flotta romana. Perciò combattere con le armi in pugno, scelta gloriosa dei forti, è sicura difesa anche per i meno coraggiosi. I nostri compagni che si sono battuti prima d'ora con varia fortuna contro i Romani avevano nelle nostre braccia una speranza e un aiuto, perché noi, i più nobili di tutta la Britannia -perciò vi abitiamo proprio nel cuore, senza neanche vedere le coste dove risiede chi ha accettato la servitù - avevamo perfino gli occhi non contaminati dalla dominazione romana. Noi, al limite estremo del mondo e della libertà,siamo stati fino a oggi protetti dall'isolamento e dall'oscurità del nome. Ora si aprono i confini ultimi della Britannia e l'ignoto è un fascino: ma dopo di noi non ci sono più popoli, bensì solo scogli e onde e il flagello peggiore, i Romani, alla cui prepotenza non fanno difesa la sottomissione e l'umiltà.
Predatori del mondo intero, adesso che mancano terre alla loro sete di totale devastazione,vanno a frugare anche il mare: avidi se il nemico è ricco,arroganti se povero, gente che né l'oriente né l'occidente possono saziare; loro soli bramano possedere con pari smania ricchezze e miseria.
Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto, dicono che è la pace.»
IL PUNTO DI VISTA DEI ROMANI : IL DISCORSO DI PETILIO CERIALE AI GALLI
Historiae 4. 73-74
Il comandante Petilio Ceriale parla ai Galli, per dissuaderli dal seguire Civile
73. Convocati poi Treviri e Lingoni a parlamento, così parlò: «Non sono maestro di belle parole e con le armi ho attestato il valore del popolo romano; ma poiché siete tanto sensibili alle parole e valutate il bene e il male non per quello che sono, ma ascoltando le chiacchiere dei sediziosi, ho deciso di dirvi poche parole, parole che, a guerra finita, sarà più utile per voi aver ascoltato, che non per me aver pronunciato. Comandanti e imperatori romani sono entrati nella vostra terra e in quella degli altri Galli non per sete di conquista, ma perché implorati dai vostri padri, stremati quasi a morte dai loro conflitti interni, e perché i Germani, da voi chiamati in aiuto, avevano asservito tutti, alleati e nemici. Attraverso quante battaglie contro Cimbri e Teutoni, con che gravi fatiche dei nostri eserciti e con quale risultato abbiamo combattuto le guerre contro i Germani, è cosa ben nota. Non per difendere l'Italia ci siamo stanziati sul Reno, ma perché un altro Ariovisto non si facesse re delle Gallie. Pensate forse che Civile e i Batavi e i popoli d'oltre Reno vi amino più di quanto i loro antenati abbiano amato i vostri padri e i vostri avi? Sempre identico e unico è il motivo del passaggio dei Germani nelle Gallie, l'avidità senza limiti e la smania di cambiare sede: vogliono lasciare le loro paludi e le loro terre desolate per impossessarsi di questo suolo così fertile e di voi stessi. Naturalmente accampano la libertà e altre belle parole, ma chiunque abbia voluto asservire e dominare gli altri è sempre ricorso alle stesse identiche parole (nec quisquam alienum servitium et dominationem sibi concupivit ut non eadem ista vocabula usurparet)
74. «Sempre nelle Gallie ci sono state tirannidi e guerre, finché non avete accettato le nostre leggi. Noi, benché tante volte provocati, vi abbiamo imposto, col diritto della vittoria, solo il necessario per garantire la pace; infatti, la pace tra i popoli è impensabile senza armi e le armi senza mantenimento degli eserciti e il mantenimento degli eserciti senza tributi. Per il resto vi abbiamo reso partecipi di tutto. Voi spesso comandate le nostre legioni, voi governate queste o altre province; non esistono àmbiti separati ed esclusioni. Dei buoni prìncipi vi avvantaggiate quanto noi, benché viviate lontani; gli imperatori perversi infieriscono solo su chi sta loro più vicino. Sopportate, dunque, la sregolatezza e l'avidità dei dominatori come la siccità, le alluvioni e gli altri disastri della natura. Finché ci saranno uomini ci saranno vizi (Vitia erunt, donec homines); ma non sono mali senza fine e trovano compenso quando arriva il meglio. Ma forse voi sperate in un dominio più mite, quando regneranno Tutore e Classico e forse ci vorranno tributi minori per allestire gli eserciti che vi difendano da Germani e da Britanni. E una volta cacciati i Romani - cosa che gli dèi non consentano! - cos'altro avverrebbe, se non una serie di guerre fra tutti i popoli (bella omnium inter se gentium)? Ottocento anni di fortuna e di disciplina hanno cementato questa struttura, che non può essere demolita senza la rovina di chi la demolisce (compages haec coaluit, quae con velli sine exitio convellentium non potest). E il rischio maggiore tocca a voi che possedete oro e ricchezze, cause primarie di guerre. Perciò amate e difendete la pace e la città che noi tutti, vinti e vincitori, accoglie con gli stessi diritti. Vi insegni qualcosa l'esperienza della buona e della cattiva sorte e non continuate a scegliere una ribellione rovinosa, bensì invece l'obbedienza nella sicurezza (obsequium cum securitate)». Con tale discorso riportò la calma e la fiducia tra genti che temevano ben altre vendette.
MORTE DI SENECA
Annales
XV, 62-63
Quello impavido chiede le tavolette del testamento; ma poiché il centurione lo negava, egli, voltatosi verso gli amici, dal momento che gli veniva proibito di ringraziarli per i loro meriti, diceva di lasciare in eredità la sola cosa che aveva, per quanto bellissima, l’esempio della propria vita, di cui se fossero stati memori, avrebbero portato come premio per una amicizia tanto costante, la gloria delle buone arti. Nello stesso momento trattiene le loro lacrime, ora con il discorso, ora più forte, alla maniera di uno che guida alla fermezza, chiedendo continuamente dove si trovassero gli insegnamenti della sapienza, dove il comportamento meditato per tanti anni contro le minacce incombenti. A chi infatti era stata ignota la crudeltà di Nerone? E dopo l’uccisione della madre e del fratello non gli restava altro che aggiungere la morte dell’educatore e del precettore.
Come disse queste e altre cose come rivolto a tutti, abbraccia la moglie, ed essendosi un po’ intenerito contro la presente forza d’animo, chiede e prega di dominare il dolore e di non addossarselo in eterno, ma di sopportare il desiderio del marito con conforti onesti all’interno della contemplazione di una vita vissuta per mezzo della virtù. Quella al contrario afferma con certezza che la morte era destinata anche a lei e chiede la mano del boia. Allora Seneca, non rifiutandole la gloria, sia per amore, sia per non lasciare esposta alle offese la donna amata in maniera unica da lui, disse: “Io ti avevo mostrato i sollievi della vita, tu preferisci l’onore della morte: non mi opporrò a questo gesto esemplare. Sia pure pari per entrambi la fermezza di questa morte tanto coraggiosa, ma c’è più fama nella tua fine.” Dopo queste cose con lo stesso colpo si taglia le braccia con il ferro. Seneca, poiché il corpo vecchio e indebolito dalla scarsa alimentazione offriva una lenta uscita al sangue, tagliò anche le vene delle gambe e delle ginocchia; stanco per i crudeli tormenti, per non infrangere con il proprio dolore l’animo della moglie e non essere lui stesso preda dell’impazienza vedendo i tormenti di lei, la convince ad allontanarsi in un’altra stanza. E anche nell’ultimissimo istante, dal momento che c’era in lui abbastanza eloquenza, chiamati gli scrivani, dettò molte parole, che essendo state pubblicate con le sue parole, evito di parafrasare.
MORTE DI PETRONIO
Annales XVI, 19
In quei giorni per caso l'imperatore si era diretto in Campania ed avanzato fino a Cuma, dove era trattenuto Petronio; quest'ultimo cessò di prolungare oltre le sue speranze e le sue paure. Tuttavia non si precipitò a suicidarsi, ma, dopo essersi tagliato le vene, come decise, fasciatele le apriva di nuovo e parlava con gli amici non di argomenti seri o tali da cercarvi gloria di stoico. E li ascoltava mentre parlavano non dell'immortalità e delle decisioni dei saggi, ma di poesie non impegnate e versi divertenti. Ad alcuni servi consegnò delle somme di denaro, altri li fece frustare. Andò a pranzo, si abbandonò al sonno, perchè quella morte - che pure era obbligata - risultasse simile ad una accidentale. Nemmeno nelle postille testamentarie -cosa abituale per la maggior parte di coloro che cadono in disgrazia - volle adulare Nerone, Tigellino o qualche altro potente, anzi descrisse, nascondendole sotto i nomi di amasi e prostitute, le malefatte dell'imperatore, le violenze da lui inventate e, dopo aver apposto il suo sigillo, consegnò le sue carte a Nerone. Poi spezzò l'anello, perchè non servisse in futuro a creare pericoli.