italiano - proffedamico

Vai ai contenuti

Menu principale:

italiano

classe 2




COME FARE UN SAGGIO BREVE


L'analisi della consegna

Il primo passo verso la realizzazione del saggio è l'analisi della consegna. La consegna per l'elaborazione di un saggio breve deve contenere i seguenti elementi:  

argomento
destinatario
forma/modalità comunicativa
documentazione disponibile
spazio disponibile
tempo disponibile  

2. La progettazione e la stesura del testo

Dopo aver schedato la documentazione, occorre stabilire una scaletta che consideri questi punti :  
come incominciare  (l'introduzione)
come sviluppare      (l'esposizione e l'argomentazione)
come concludere

Prima di stendere materialmente il testo occorre ritornare alla consegna e precisamente all'identificazione del destinatario.  
Sapere per chi si scrive è infatti fondamentale per decidere quale registro linguistico utilizzare e quale stile adottare.  
Per il saggio breve la scelta (dal momento che il destinatario è un insegnante) deve cadere su un registro formale e su uno stile più mirato alla chiarezza e alla precisione dell'esposizione che non alla espressività o alla creatività personale.  
Sarà opportuno operare scelte lessicali  adeguate all'argomento e utilizzare termini specialistici quando sia necessario.

E' comunque opportuno ordinare le proprie riflessioni ponendosi alcune domande :·  

quale registro scegliere?         (formale o informale)
quale linguaggio utilizzare?    (quotidiano o specialistico)
quale tempo-guida utilizzare? (presente / passato prossimo / passato remoto)
quale aggettivazione scegliere? (scarna, pochi aggettivi / ricca, molti aggettivi)
quale andamento assegnare ai periodi?  (paratattico, frasi brevi e giustapposte / ipotattico, frasi più lunghe, ricche di incisi e subordinate)
come scandire il testo? (paragrafi/capoversi)

3. Controllo e autocorrezione

Griglia di verifica :

il testo ha risposto complessivamente alle richieste iniziali: contenuto, destinatario, lunghezza ?
il testo ha rispettato la scaletta?
il testo presenta affermazioni contradditorie?
gli spazi destinati ai vari punti della scaletta sono equilibrati?
vi sono concetti ripetuti?
vi sono affermazioni non argomentate?
vi sono opinioni non suffragate da documenti?
vi sono errori di sintassi? (occorre controllare soprattutto i connettivi, la punteggiatura, i verbi reggenti, le frasi nominali)





ESERCITAZIONI PROVE INVALSI



Testo A- prova 1              ITALO CALVINO. Il cavaliere inesistente

I
Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l’esercito di Francia. Carlomagno doveva passare in rivista i paladini. Già da piú di tre ore erano lì; faceva caldo; era un pomeriggio di prima estate, un po’ coperto, nuvoloso; nelle armature si bolliva come in pentole tenute a fuoco lento. Non è detto che qualcuno in quell’immobile fila di cavalieri già non avesse perso i sensi o non si fosse assopito, ma l’armatura li reggeva impettiti in sella tutti a un modo. D’un tratto, tre squilli di tromba: le piume dei cimieri sussultarono nell’aria ferma come a uno sbuffo di vento, e tacque subito quella specie di mugghio marino che s’era sentito fin qui, ed era, si vede, un russare di guerrieri incupito dalle gole metalliche degli elmi. Finalmente ecco, lo scorsero che avanzava laggiú in fondo, Carlomagno, su un cavallo che pareva piú grande del naturale, con la barba sul petto, le mani sul pomo della sella. Regna e guerreggia, guerreggia e regna, dài e dài, pareva un po’ invecchiato, dall’ultima volta che l’avevano visto quei guerrieri.
Fermava il cavallo a ogni ufficiale e si voltava a guardarlo dal su in giú. - E chi siete voi, paladino di Francia? - Salomon di Bretagna, sire! - rispondeva quello a tutta voce, alzando la celata e scoprendo il viso accalorato; e aggiungeva qualche notizia pratica, come sarebbe: - Cinquemila cavalieri, tremilacinquecento fanti, milleottocento i servizi, cinque anni di campagna.
- Sotto coi brètoni, paladino! - diceva Carlo, e toctoc, toc toc, se ne arrivava a un altro capo di squadrone.
- Ecchisietevòi, paladino di Francia? - riattaccava.
- Ulivieri di Vienna, sire! - scandivano le labbra appena la griglia dell’elmo s’era sollevata. E lì - Tremila cavalieri scelti, settemila la truppa, venti macchine da assedio. Vincitore del pagano Fierabraccia per grazia di Dio e gloria di Carlo re dei Franchi!
- Ben fatto, bravo il viennese, - diceva Carlomagno, e agli ufficiali del seguito: - Magrolini quei cavalli, aumentategli la biada- . E andava avanti: - Ecchisietevòi, paladino di Francia? - ripeteva, sempre con la stessa cadenza: "Tàtta tatatài tàta tàtatatàta..."
- Bernardo di Mompolier, sire! Vincitore di Brunamonte e Galiferno.
- Bella città Mompolier! Città delle belle donne!- e- al seguito: - Vedi se lo passiamo di grado- . Tutte cose che dette dal re fanno piacere, ma erano sempre le stesse battute, da tanti anni.
- Ecchisietevòi, con quello stemma che conosco? - Conosceva tutti dall’arma che portavano sullo scudo, senza bisogno che dicessero niente, ma così era l’usanza che fossero loro a palesare il nome e il viso. Forse perché altrimenti qualcuno, avendo di meglio da fare che prender parte alla rivista, avrebbe potuto mandar lì la sue armature con un altro dentro.
- Alardo di Dordona, del duca Amone.
- In gamba Alardo, cosa dice il papà, - e così via. "Tàtta tatatài tàta tàta tatàta..."
- Gualfré di Mongioja! Cavalieri ottomila tranne i morti!
Ondeggiavano i cimieri. - Uggeri Danese! Namo di Baviera! Palmerino d’Inghilterra!
Veniva sera. I visi, di tra la ventaglia e la bavaglia, non si distinguevano neanche piú tanto bene. Ogni parola, ogni gesto era prevedibile ormai, e così tutto in quella guerra durata da tanti anni, ogni scontro, ogni duello, condotto sempre secondo quelle regole, cosicché si sapeva già oggi per domani chi avrebbe vinto, chi perso, chi sarebbe stato eroe, chi vigliacco, a chi toccava di restare sbudellato e chi se la sarebbe cavata con un disarcionamento e una culata in terra. Sulle corazze, la sera al lume delle torce i fabbri martellavano sempre le stesse ammaccature.
- E voi? - Il re era giunto di fronte a un cavaliere dall’armatura tutta bianca; solo una righina nera correva torno torno ai bordi; per il resto era candida, ben tenuta, senza un graffio, ben rifinita in ogni giunto, sormontata sull’elmo da un pennacchio di chissà che razza orientale di gallo, cangiante d’ogni colore dell’iride. Sullo scudo c’era disegnato uno stemma tra due lembi d’un ampio manto drappeggiato, e dentro lo stemma s’aprivano altri due lembi di manto con in mezzo uno stemma piú piccolo, che conteneva un altro stemma ammantato piú piccolo ancora. Con disegno sempre piú sottile era raffigurato un seguito di manti che si schiudevano uno dentro l’altro, e in mezzo ci doveva essere chissà che cosa, ma non si riusciva a scorgere, tanto il disegno diventava minuto. - E voi lì, messo su così in pulito... - disse Carlomagno che, piú la guerra durava, meno rispetto della pulizia nei paladini gli capitava di vedere.
- Io sono. - la voce giungeva metallica da dentro l’elmo chiuso, come fosse non una gola ma la stessa lamiera dell’armatura a vibrare, e con un lieve rimbombo d’eco, - Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez!
- Aaah... - fece Carlomagno e dal labbro di sotto, sporto avanti, gli uscì anche un piccolo strombettio, come a dire: "Dovessi ricordarmi il nome di tutti, starei fresco!" Ma subito aggrottò le ciglia. - E perché non alzate la celata e non mostrate il vostro viso?
Il cavaliere non fece nessun gesto; la sua destra inguantata d’una ferrea e ben connessa manopola si serrò piú forte all’arcione, mentre l’altro braccio, che reggeva lo scudo, parve scosso come da un brivido.
- Dico a voi, ehi, paladino! - insisté Carlomagno.
- Com’è che non mostrate la faccia al vostro re?
La voce uscì netta dal barbazzale. - Perché io non esisto, sire.




Testo B - prova 1                                  TIZIANO SCARPA .
Venezia è un pesce – Una guida



Venezia è un pesce. Guardala su una carta geografica. Assomiglia a una sogliola colossale distesa sul fondo. Corne mai questo animale prodigioso ha risalito l'Adriatico ed è venuto a rintanarsi proprio qui? Poteva scorrazzare ancora, fare scalo un po' dappertutto, secondo l'estro; migrare, viaggiare, spassarsela corne le è sempre piaciuto: questo fine settimana in Dalmazia, dopodomani a Istanbul, l'estate prossima a Cipro. Se si è ancorata da queste parti, un motivo ci deve essere. I salmoni si sfiancano controcorrente, si arrampicano sulle cascate per andare a fare l'amore in montagna. Balene, sirene e polene vanno a morire nel mar dei Sargassi.
Gli altri libri sorriderebbero di quello che ti sto dicendo. Ti raccontano la nascita dal nulla della città, la sua strepitosa fortuna commerciale e militare, la decadenza: fiabe. Non è cosi, credimi. Venezia è sempre esistita corne la vedi, o quasi. È dalla notte dei tempi che naviga; ha toccato tutti i porti, ha strusciato addosso a tutte le rive, le banchine, gli approdi: sulle squame le sono rimaste attaccate madreperle mediorientali, sabbia fenicia trasparente, molluschi greci, alghe bizantine. Un giorno però ha sentito tutto il gravame di queste scaglie, questi granelli e schegge accumulati sulla pelle un poco per volta; si è resa conto delle incrostazioni che si stava portando addosso. Le sue pinne sono diventate troppo pesanti per sgusciare fra le correnti. Ha deciso di risalire una volta per tutte in una delle insenature più a nord del Mediterraneo, la più tranquilla, la più riparata, e di riposare qui.
Sulla cartina geografica, il ponte che la collega alla terraferma assomiglia a una lenza: sembra che Venezia abbia abboccato all' amo. È legata a doppio filo: binario d'acciaio e fettuccia d'asfalto; ma questo è successo dopo, soltanto un centinaio di anni fa. Abbiamo avuto paura che un giorno Venezia potesse cambiare idea e ripartire; l'abbiamo allacciata alla laguna perché non le saltasse in mente di salpare di nuovo e andarsene lontano, questa volta per sempre. Agli altri diciamo che l'abbiamo fatto per proteggerla, perché dopo tutti questi anni di ormeggio non è più abituata a nuotare: la catturerebbero subito, finirebbe di sicuro su qualche baleniera giapponese; la esporrebbero in un acquario a Disneyland. La verità è che non possiamo più fare a meno di lei. Siamo gelosi. Anche sadici e violenti, se si tratta di trattenere chi si ama. Abbiamo fatto di peggio che legarla alla terraferma: l'abbiamo letteralmente inchiodata al fondale.
C'è un romanzo di Bohumil Hrabal dove un bambino ha l' ossessione dei chiodi. Li pianta solo sui pavimenti: a casa, in albergo, dagli ospiti. Tutti i parquet di legno che gli capitano a tiro .vengono martellati dalla mattma alla sera. Come se il bambino volesse fissare le case al terreno, per sentirsi più sicuro. Venezia è fatta così; solo che i chiodi non sono di ferro ma di legno, e sono enormi, da due a dieci metri di lunghezza, con un diametro di venti, trenta centimetri. Sono piantati nella melma del fondale.
Questi palazzi che vedi, le architetture di marmo, le case di mattoni non si potevano costruire sull'acqua, sarebbero sprofondate nel fango. Come si fa a gettare fondamenta solide sulla melma? I veneziani hanno conficcato nella laguna centinaia di migliaia, milioni di pali. Sotto la basilica della Salute ce ne sono almeno centomila; anche ai piedi del ponte di Rialto, per contenere la spinta dell'arco di pietra. La basilica di san Marco poggia su zatteroni di rovere, sostenuti da una palafitta d'olmo. I tronchi se li sono procurati nei boschi del Cadore, sulle Alpi venete; li hanno fatti scendere fino alla laguna lasciandoli ga1leggiare lungo i fiumi, sul Piave. Ci sono larici, olmi, ontani, querce, pini, roveri. La Serenissima è stata molto accorta, ha avuto sempre un occhio di riguardo per questo patrimonio di legno; leggi molto severe salvaguardavano le foreste.
Alberi capofitti a testa in giù, piantati con una specie di incudine tirata su a forza di carrucole. Ho fatto in tempo a vederli, da bambino: ho sentito le canzoni degli operai battipalo ritmate dalle percussioni lente e poderose di quei magli sospesi per aria, a forma di cilindro, che scorrevano su rotale verticali, in piedi, salivano piano, si abbattevano di schianto. I tronchi si sono mineralizzati proprio grazie al fango, che li ha avvolti nella sua guaina protettiva, ha impedito che marcissero a contatto con l'ossigeno: in apnea per secoli, il legno si è trasformato quasi in pietra.
Stai camminando sopra una sterminata foresta capovolta, stai passeggiando sopra un incredibile bosco alla rovescia. Sembra l'invenzione di un mediocre scrittore di fantascienza, invece è vero. (...)
Come sai bene dai soliti servizi del telegiornale, ti può capitare di girare a Venezia con i piedi a mollo: l'acqua alta è una sfortunata combinazione di brutto tempo, venti e correnti che stipano l'alta marea in laguna. Succede soprattutto da ottobre a dicembre; ma qualche anno fa, in aprile, sono uscito dal cinema su un campiello completamente allagato; ho accompagnato a casa un'amica trasportandola sulle spalle, con le gambe nell'acqua gelida fino al ginocchio, avanzando lentamente, per un paio d'ore: un atto – letteralmente – di cavalleria che mi è costato tre giorni di raffreddore e febbre. . L'acqua alta è una sciagura di questo secolo; una parte della laguna è stata interrata, canali profondi sono stati scavati per non far incagliare le petroliere, permettendo al mare di allagare la città in pochi minuti, rapinosamente. Le isole basse e spugnose della laguna, le baréne coperte di sterpaglie, smangiate dal moto ondoso, non sono state più sufficienti ad assorbire la marea in eccesso. I veneziani antichi avevano deviato il corso dei fiumi per impedire alle piene di riversare troppa acqua in laguna. E Venezia stessa all'inizio si chiamava la Città della Riva Alta, Civitas Rivoalti, a Rialto: anche se gli archeologi più recenti non sono d'accordo, si diceva fosse nata su quel nucleo di isole leggermente più sollevate rispetto al livello dell'acqua.
Le sirene che suonavano l'allarme durante le incursioni aeree della seconda guerra mondiale sono rimaste in cima ai campanili. Ora segnalano le incursioni marine, quando sta per montare l'acqua alta: risvegliano alle cinque, alle sei di mattina. Gli abitanti insonnoliti fissano agli ingressi paratie d'acciaio, infilano piccole dighe nelle cornici di metallo gommato sugli stipiti delle porte di casa. Vanno difese persino quelle finestre dei piani terra che si affacciano sui canali gonfi d'acqua: più spesso non c'è proprio niente da fare, l'acqua sgorga dai tombini, rampolla dalle fessure dei pavimenti, intacca i mobili, infradicia i muri, sbriciola il lavoro degli imbianchini. I commercianti corrono ad avviare gli interruttori delle pompe idrauliche, in fretta e furia tirano su le merci dagli scaffali più bassi.
Squadre speciali di netturbini escono all'alba a montare le passerelle di legno nelle calli sommerse. I liceali con gli stivaloni di gomma al ginocchio - o addirittura con quelli da pesca, che foderano tutta la gamba - offrono un passaggio agli amici usciti di casa con le scarpe basse; si caricano sulle spalle il dolce peso di una compagna di classe carina; trasportano professori a cavalcioni sulla schiena, braccia al collo e gambe strette sui fianchi, li afferrano sotto le ginocchia: impersonano a trenta secoli di distanza Enea che porta in salvo il padre Anchise fuggendo da Troia in fiamme.
I turisti si divertono come pazzi, fotografano, girano a piedi nudi con i pantaloni arrotolati alla pescatora, pestano invisibili cacche di cane subacquee; ce n'è sempre uno che passeggia beato, si sganascia, giubila, non si accorge che sta pericolosamente avvicinandosi all'orlo della fondamenta sommersa, la riva invisibile sotto i suoi piedi è terminata, ma lui continua a trascinare le caviglie sott'acqua e il passo gli cede, sprofonda nel canale.












































 
Privacy Policy
Torna ai contenuti | Torna al menu