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Lettera all' amico del cuore scoperto il Leopardi segreto
Repubblica - 23 luglio 2002 pagina 6 sezione: BARI


LECCE - E' la grafia "sofferta e tormentata" a descrivere lo stato d' animo di Giacomo Leopardi. Il poeta di Recanati era inquieto quando all' amico Antonio Ranieri scrisse della sua "sola ed ultima speranza", del suo desiderio di vivere "l' uno per l' altro, o almeno io per te". E lo fece in una lettera, datata 11 dicembre 1832, che, ironia del destino, a più di centocinquanta anni dalla morte del suo autore continua ad avere una storia difficile e travagliata. Trafugata nell' agosto del 1975 da Napoli, l' epistola è ricomparsa misteriosamente nel Salento, in una chiesa di campagna alla periferia di Salice Salentino. Abilmente nascosta in una teca dietro un quadro, avvolta nel cellophane, è stata ritrovata dagli uomini della fiamme gialle. Sull' autenticità del manoscritto gli esperti del Centro Studi Leopardiani di Recanati, della Biblioteca Nazionale "Vittorio Emanuele III" ed i docenti di Letteratura italiana dell' ateneo salentino non hanno dubbi. Resta da capire invece chi l' abbia portata e poi occultata a Salice salentino, sicuramente non molto tempo fa, in una chiesetta, recentemente ristrutturata e "sempre aperta ai fedeli" ma poco frequentata se non nei primi giorni di luglio quando il parroco don Carmine Canoci celebra una messa per gli ammalati. "Abbiamo già informato l' autorità giudiziaria. Le indagini puntano all' individuazione dell' autore del furto, anche se è trascorso molto tempo, e soprattutto a quella dei responsabili del successivo occultamento" spiega il comandante della guardia di finanza di Lecce, Giorgio Bartoletti, soddisfatto per l' "importante" ritrovamento. La lettera faceva parte infatti di una raccolta di 39 epistole scritte da Giacomo Leopardi ed indirizzate all' amico fraterno Antonio Ranieri tra il 24 novembre del 1832 al 13 aprile del 1833. Donate dal cognato di Ranieri alla famiglia Carafa D' Andria erano state trafugate nell' agosto del 1975 insieme ad altri oggetti e libri d' arte, e poi ritrovate sul banco di un rigattiere nel 1981. Tutte ad eccezione della numero 6, così come indicato in alto a destra dallo stesso destinatario della lettera. Sono gli anni in cui Antonio Ranieri abbandona Firenze per seguire l' attrice Maddalena Pelzet della quale è innamorato. Giacomo Leopardi è per questo solo, risentito per l' abbandono, quando all' amico, che gli rimarrà accanto sino alla morte, l' 11 dicembre del 1832 scrive : "vorrei poterti consolare da vicino, vorrei che questa cosa non si opponesse alla congiunzione, da noi tanto meditata e desiderata, dei nostri destini". Che avviene, così come si augura l' autore dello Zibaldone, pochi mesi dopo. "Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà eternamente tuo" scrive Giacomo Leopardi, "un genio possessivo, egoista ed assolutista nei confronti di Antonio Ranieri" dice Mario Giancastro, direttore della Biblioteca Nazionale "Federico III " di Napoli. La lettera, ritrovata a Salice, è un tassello in più per ricostruire la personalità del poeta di Recanati che diceva "Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai, né ti raffredderai nell' amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provegga prima d' ogni cosa al tuo ben essere", e per chiarire il rapporto enigmatico, forse più di una normale amicizia, che lo legava all' amico di Napoli, nella cui abitazione morì il 14 giugno del 1937. E se gli studiosi, gli amanti del poeta di Recanati esultano per il ritrovamento dell' epistola, i militari della guardia di finanza adesso sono al lavoro per capire come sia arrivata sino a Salice. A condurre gli uomini delle fiamme gialle alla chiesetta della Madonna del Latte, ad un chilometro dal centro abitato, è stata la segnalazione del reparto specializzato nella tutela dei beni archeologici e storici di Bari. Dice il colonnello Giorgio Bartoletti "secondo gli esperti è sempre possibile che beni di tale valore possano essere occultati in luoghi di culto, come chiese sconsacrate o abitualmente aperte al pubblico. E quella in cui è avvenuto il ritrovamento può essere visitata in tutte le ore, non è di difficile accesso".


DIALOGO DI UN VENDITORE D'ALMANACCHI
E DI UN PASSEGGERE


Da " Le operette morali"


Venditore. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Passeggere. Almanacchi per l'anno nuovo?
Venditore. Si signore.
Passeggere. Credete che sarà felice quest'anno nuovo?
Venditore. Oh illustrissimo si, certo.
Passeggere. Come quest'anno passato?
Venditore. Più più assai.
Passeggere. Come quello di là?
Venditore. Più più, illustrissimo.
Passeggere. Ma come qual altro? Non vi piacerebb'egli che l'anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Venditore. Signor no, non mi piacerebbe.
Passeggere. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?
Venditore. Saranno vent'anni, illustrissimo.
Passeggere. A quale di cotesti vent'anni vorreste che somigliasse l'anno venturo?
Venditore. Io? non saprei.
Passeggere. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
Venditore. No in verità, illustrissimo.
Passeggere. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
Venditore. Cotesto si sa.
Passeggere. Non tornereste voi a vivere cotesti vent'anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?
Venditore. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
Venditore. Cotesto non vorrei.
Passeggere. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch'ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l'appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
Venditore. Lo credo cotesto.
Passeggere. Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
Venditore. Signor no davvero, non tornerei.
Passeggere. Oh che vita vorreste voi dunque?
Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz'altri patti.
Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell'anno nuovo?
Venditore. Appunto.
Passeggere. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest'anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d'opinione che sia stato più o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore. Speriamo.
Passeggere. Dunque mostratemi l'almanacco più bello che avete.
Venditore. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Passeggere. Ecco trenta soldi.
Venditore. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.




GIACOMO LEOPARDI: La ginestra.


La Ginestra o fiore del deserto, composta dall'estate all'autunno del 1836 a Villa Ferrigni , sulle falde del Vesuvio. Se ne conservano tre copie manoscritte , tutte di mano di Antonio Ranieri , a cui Leopardi negli ultimi tempi era probabilmente costretto a dettare i suoi testi per l'aggravamento della sua malattia agli occhi.
Nella canzone è chiaro il tema di fondo: la contrapposizione tra la potenza distruttiva della natura e la fragilità umana; da un lato la Natura che tutto può e dall'altro l'uomo che deve subire ciò che la divinità superiore ha stabilito per lui. Si parla della coraggiosa e allo stesso tempo fragile resistenza, che la ginestra oppone alla lava del Vesuvio, il monte sterminatore, simbolo della natura crudele e distruttiva.
Il delicato fiore coraggiosamente risorge sulla lava pietrificata, e con la fragranza dei suoi arbusti sembra rallegrare queste lande desolate. Ma il suo destino è tragicamente segnato da una nuova eruzione, capace di annullare non solo la sua consolante presenza ma , cosa ancor più drammatica, la presenza dell'uomo in questi luoghi. La ginestra diviene dunque simbolo della condizione umana: l' impotenza, del genere umano, l'inesorabile inimicizia della Natura in contrasto con la ridicola superbia degli uomini che, pur non essendo nulla, si credono padroni e signori della terra e dell'universo.
La consapevolezza del doloroso vivere dell'uomo deve divenire, secondo Leopardi, coscienza collettiva, travalicando i confini dell'individualismo. Agli intellettuali spetta il compito di favorire questa presa di coscienza, favorendo l'alleanza tra tutti gli uomini che devono impegnarsi a costruire una rete di solidarietà e di soccorso reciproco.

Il canto può essere suddiviso in base alle 7 strofe che lo compongono:

STROFA 1 VV. 1 - 51 L'io del poeta e il tu della ginestra .

STROFA 2 VV. 52 - 86 La polemica con il XIX secolo.

STROFA 3 VV. 87 - 157 Polemica e utopia : un nuovo patto sociale .

STROFA 4 VV. 158 - 201 L'apertura cosmica: dal deserto della terra al deserto celeste .

STROFA 5 VV. 202 - 223 Formiche e uomini.

STROFA 6 VV. 237 - 296 Il tempo della Natura e il tempo della Storia.

STROFA 7 VV. 297 - 317 Il profumo della ginestra




STROFA 1 : Il poeta e la ginestra
Il paesaggio è dominato dal Vesuvio la cui mole formidabil incombe a smentire qualsiasi fiducia sul progresso e sulla sorte umana ; al vulcano si oppone l'odorata ginestra che osserva la rovina circostante rimando radicata in essa: accettando la verità consapevole della propria fragilità.
(vv.2-7)
STROFA 2 : polemica contro il proprio secolo
Qui mira e qui ti specchia .. Leopardi ,con tono ironico e sferzante, rivolge un'apostrofe al XIX secolo , personificato e accusato di aver riportato indietro il pensiero tradendo in un certo modo il pensiero del Rinascimento e dell'Illuminismo (vv.73-76)
STROFA 3 : un nuovo patto sociale
Immagine autobiografica dell'uom di povero stato e membra inferme che, da saggio ,accetta la sua condizione senza nasconderla a sé e agli altri, al contrario invece del magnanimo animale che presume di essere forte e nobile e perciò si vanta .( vv. 87-157)
Il nuovo patto sociale è l'alleanza strategica, la social catena contro la Natura, nemico comune ; un'alleanza in cui tutti gli uomini riconoscano la propria fragilità, in una sorta di sfida al pensiero contemporaneo.
STROFA 4 : l'apertura cosmica
Dal paesaggio vesuviano da cui è consuetudine del poeta osservare il cielo parte la dimensione spaziale dell'io nel canto : dalla dimensione terrestre a quella cosmica ( vicino-lontano; alto-basso) (vv.164-183)
STROFA 5 : le formiche e gli uomini
Similitudine tra la caduta del frutto maturo e l'eruzione vulcanica entrambe distruttrici . la prima verso un formicaio, la seconda verso gli uomini. Tutto fa parte del ciclo perpetuo nascita/morte da cui la desolante conferma che il mondo non è fatto per l'uomo.( vv. 202-212)
STROFA 6 : Natura e Storia
Dal tempo della Natura a quello della Storia ( vv.237-238) il poeta dimostra come la prima inghiotte la seconda risucchiando l'evoluzione storica nel vortice del moto ciclico scandito dai regolari e periodici disastri naturali. (vv. 240-288)
STROFA 7 : il profumo della ginestra
Con una struttura circolare il canto si chiude con la figura iniziale della ginestra.
Alla furia dell'indifferente Natura l'uomo deve rispondere solo con una docile resistenza ,così come la ginestra che dona ai deserti il suo profumo e sa accettare e aspettare senza inutile orgoglio la sua fine . (vv.297-317)

Forma metrica: Canzone libera composta di sette stanze libere di diversa dimensione e, spesso, rime al mezzo.




Inedito: la vera storia di Fiume


D'Annunzio scrisse a Benito
di Giordano Bruno Guerri



Il Vate contava sulle "squadre" fasciste del futuro Duce. Che non credeva nel successo. Salvo appropriarsene... La lettera: "Caro Benito, parto confidando nel tuo appoggio"
Il carteggio fra Gabriele d'Annunzio e Benito Mussolini venne pubblicato nel 1971, da Mondadori, con il titolo D'Annunzio, Mussolini e la politica italiana 1919-1938. Nonostante l'autorevolezza dei curatori, Renzo De Felice e Emilio Mariano, è un'opera ormai introvabile e bisognosa di aggiornamenti storiografici: anche per il nuovo materiale - documentario e fotografico - acquisito negli anni.
L'ultimo documento è arrivato al Vittoriale degli Italiani ieri, inatteso, durante la cerimonia per il 73° anniversario della morte del poeta. Una giornata di festa, con la piantumazione di venti cipressi, per sostituirne altrettanti caduti dalla morte di d'Annunzio a oggi e che miglioreranno la posizione del Vittoriale nella classifica dei dieci più bei parchi d'Italia. Poi la donazione da parte del maestro Ettore Greco di una potentissimo bronzo raffigurante, a grandezza naturale, un San Sebastiano, perché quest'anno ricorre il centenario del Martyre de Saint Sébastien scritto da d'Annunzio, musicato da Debussy e interpretato da Ida Rubinstein. Poi l'innalzamento delle bandiere di Pescara, città natale, e di Gardone Riviera - in omaggio ai Gemellaggi Dannunziani, che comprendono già 39 luoghi - alla presenza dei sindaci Luigi Albore Mascia e Andrea Cipani. Infine - ma trascuro molti altri eventi - l'ormai tradizionale donazione di nuovi documenti: la famiglia Cosimi ha depositato quelli del capitano (poi generale) Mario Sani, uno dei principali collaboratori del Comandante d'Annunzio; il collezionista e studioso luganese Giovanni Maria Staffieri, generoso sostenitore del Vittoriale, ha fornito un carteggio fra il poeta e la pittrice Romaine Brooks. Ma Staffieri aveva anche una sorpresa, per me, per amicizia. "La conosci questa?", mi ha chiesto, sornione, all'ultimo momento. E mi ha messo in mano dei fogli con l'inconfondibile calligrafia, su carta con motto "Per non dormire".
È una lettera scritta a Mussolini il 7 settembre 1919, cinque giorni prima della presa di Fiume. Finora si credeva che l'annuncio fosse stato dato al duce del fascismo nascente l'11 settembre, ("Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi"). Il nuovo documento, di eccezionale bellezza nella sonorità della lingua, dimostra che i legami fra i due erano più stretti e assidui di quanto si pensasse, e che d'Annunzio sperava davvero nell'aiuto di Mussolini e delle sue squadre in via di formazione, oltre che sul suo appoggio giornalistico: "Confido nel vostro appoggio e sostegno fra coloro che, vili, temeranno questa mano armata. La Storia serberà allori per coloro che avranno operato per il glorioso epilogo. Viva l'Italia!".
In realtà Mussolini non credeva che l'impresa sarebbe riuscita, e si limitò a un sostegno formale, tanto che già il 20 settembre il vate gli scrisse una lettera piena di insulti che il duce ebbe la sfrontatezza di pubblicare, censurata e rimontata, facendola passare per una lettera di lodi. Poi si limitò a promuovere una sottoscrizione per Fiume che fruttò quasi tre milioni di lire. In ottobre consegnò a d'Annunzio, di persona, le prime 857.842 lire, e non si è mai saputo quanto abbia versato del resto; sospettato di essersi tenuto gran parte del denaro per finanziare il fascismo, ottenne una dichiarazione pubblica nella quale il Comandante riconosceva di averlo autorizzato a trattenere una cifra imprecisata per i suoi "combattenti": i quali, a Fiume, erano una minoranza.
Per troppi anni, fino ai più recenti, si è considerata l'impresa fiumana soltanto come un episodio di acceso nazionalismo, o addirittura la culla del fascismo. In realtà Fiume fu anzitutto uno straordinario, avanzatissimo, esperimento libertario, a partire dalla Costituzione scritta dal poeta e dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris. Anche per questo Mussolini - che stava preparando l'alleanza con i poteri forti, monarchia, Chiesa, esercito, proprietari - non vi credette, e lasciò senza intervenire che nel 1920 Giolitti ordinasse il "Natale fiumano di sangue", facendo attaccare la città dall'esercito.
Nei primi giorni del 1921 cominciò la lenta evacuazione dei militi dannunziani. Il Comandante si trattenne fino al 18 gennaio, in uno stato di scoramento ma anche di orgoglio. Ciò che aveva creato sarebbe rimasto nella storia. "Nudi alla meta", aveva detto d'Annunzio in una delle sue innumerevoli arringhe, aggiungendo che "Chi s'arresta è perduto" e intimando di "Marciare non marcire": slogan che ricompariranno presto sui muri delle case durante un ventennio del quale il poeta era stato un inconsapevole precursore, insegnando che era possibile ribellarsi allo Stato anche con le armi e a considerare il Capo un demiurgo capace di cambiate la vita di tutti, oltre che la patria.
Mussolini imparò, dalla lezione di Fiume, che era possibile mettere in crisi la classe dirigente liberale facendo ricorso alla retorica del patriottismo, mentre Vittorio Emanuele III dovette rendersi conto di non poter contare sulla totale fedeltà dell'esercito, constatazione che ebbe un peso rilevante nei giorni della marcia su Roma. Come ha scritto Emilio Gentile, l'ideologia realistica di Mussolini "era assolutamente estranea al fervore morale, allo spirito libertario ed autonomista (…) e al confuso ma sincero ribollimento di propositi rivoluzionari dell'ambiente fiumano". Dal fiumanesimo i fascisti presero solo l'apparato esteriore, aggiungendovi il manganello e l'olio di ricino. E mai si sarebbe sentito, durante il regime, il saluto finale che d'Annunzio lanciò dal balcone del municipio: "Viva l'Amore! Alalà!".
Per paradosso sarà proprio Mussolini a annettere Fiume all'Italia, nel 1924, con il Trattato di Rapallo. Ma il risultato non sarebbe stato possibile senza l'impresa di d'Annunzio. Che, giustamente, nella lettera pubblicata qui per la prima volta, conclude: "Finalmente la nuova impresa suggellerà la fine della splendida saga dei Mille, aggiungendo eroi ad eroi".

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"Caro Benito, parto confidando nel tuo appoggio"
La lettera di Gabriele d'An­nunzio a Benito Mussolini. Il Vate annun­ciava la sua decisione irrevocabile di assaltare Fiume. La città verrà presa il 12 settembre 1919.
Pubblichiamo la lettera datata 7 settembre 1919 di Gabriele d'An­nunzio a Benito Mussolini. Il Vate annun­ciava la sua decisione irrevocabile di assaltare Fiume. La città verrà presa il 12 settembre 1919
Mio caro Mussolini, siamo finalmente giunti alle bat­tute finali per il giorno da me tanto atteso. I fanti ardono, pronti al Santo Sacrifizio, uniti nei cuori ai loro compagni futuristi.
Sono queste notti frenetiche di duro lavoro, per garantire la conquista della "Cima" per la quale sarà dolce morire.
Il sottotenente Granjacquet mi ha offerto il comando assoluto, che ho accettato e del quale mi onoro. Una febbre insopportabile affatica le mie membra, rendendo tutto più arduo; ma nulla mi può fermare. I motori ormai caldi attendono solo la ferma mano che li guidi a compi­mento estremo. Finalmente la nuova impresa suggellerà la fina della splendida saga dei Mille, aggiungendo eroi ad eroi. Confido nel vostro appoggio e so­stegno fra coloro che, vili, temeran­no questa mano armata. La Storia serberà allori per coloro che avran­no operato per il glorioso epilogo. Viva l'Italia!
7 settembre 1919
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* Presidente del Vittoriale degli Italiani
"Il Giornale" dell'8 marzo 2011



L'Innocente ( Gabriele D'Annunzio )



Storia di un infanticidio, di una malattia psichica, di un amore nevrotico, ma, soprattutto, storia di una confessione.
Pubblicato nel 1892 e accusato di immoralità, "L'Innocente" narra la storia di Tullio Hermil, libertino aristocratico, che, venuto a sapere che la moglie Giuliana aspetta un figlio dal suo unico sofferto adulterio, non esita ad eliminare il bambino appena nato esponendolo al gelo di una nevicata. Su modello dei romanzi russi, al motivo del delitto si lega lo scandaglio delle miserie dell'anima umana. Anche Tullio Hermil è un esempio di "vivere inimitabile", di cui l'assassinio rappresenta l'infrazione suprema.
Giovane esteta, dalla sensualità disperata, il protagonista tradisce ripetutamente la moglie finendo per spingerla tra le braccia di uno tra i più letti scrittori dell'epoca, Filippo Arborio, nei cui tratti si riscontrano molte caratteristiche del Vate. Il tormento derivato dalla gravidanza di Giuliana porterà Tullio al gesto estremo, l'eliminazione del neonato Raimondo, l'"intruso".Dopo un anno intero giunge il bisogno di confessare il delitto, riempiendo la pagina bianca che diventerà "L'Innocente". Pagine di spietata analisi psicologica di una personalità instabile ispirate da romanzi come "Delitto e castigo" e "I fratelli Karamàzov" di Dostoevskij che D'Annunzio elabora, fondendole con la lezione dei naturalisti francesi. Il risultato è un' ottima resa dell' "osservazione dal vero" unita alla continua tensione dell'autore tra autobiografia e romanzo. Se Tullio Hermil e il rivale rispecchiano gli opposti della personalità dannunziana, Giuliana corrisponde alle donne amate da D'Annunzio negli anni della stesura del romanzo: la moglie, Maria di Gallese e l'amante Barbara Leoni.
Uomo più maturo, al tempo stesso più freddo e cinico ma anche più riflessivo dello Sperelli de "Il Piacere", Tullio Hermil segna una tappa fondamentale nell'evoluzione dei personaggi dannunziani. Alla figura dell'esteta si associa quella del superuomo che, considerandosi al di sopra della legge, si compiace della propria potenza, convinto di poter plasmare il mondo senza doverne pagare le conseguenze. "Violento" e "appassionato" ma "cosciente" , Tullio Hermil è un composto di violenza e freddezza, un uomo debole e malato nella volontà in grado di affermarsi solo su esseri più deboli di lui .


MANIFESTO TECNICO
DELLA LETTERATURA FUTURISTA




In aeroplano, seduto sul cilindro della benzina, scaldato il ventre dalla testa dell'aviatore, io sentii l'inanità ridicola della vecchia sintassi ereditata da Omero. Bisogno furioso di liberare le parole, traendole fuori dalla prigione del periodo latino! Questo ha naturalmente, come ogni imbecille, una testa previdente, un ventre, due gambe e due piedi piatti, ma non avrà mai due ali. Appena il necessario per camminare, per correre un momento e fermarsi quasi subito sbuffando!...

Ecco che cosa mi disse l'elica turbinante, mentre filavo a duecento metri sopra i possenti fumaiuoli di Milano. E l'elica soggiunse:
1. Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono.

2. Si deve usare il verbo all'infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo e non lo sottoponga all'io dello scrittore che osserva o immagina. Il verbo all'infinito può, solo, dare il senso della continuità della vita e l'elasticità dell'intuizione che la percepisce.

3. Si deve abolire l'aggettivo perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale. L'aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è incompatibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione.

4. Si deve abolire l'avverbio, vecchia fibbia che tiene unite l'una all'altra le parole. L'avverbio conserva alla frase una fastidiosa unità di tono.
5. Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve essere seguìto, senza congiunzione, dal sostantivo a cui è legato per analogia. Esempio: uomo-torpediniera, donna-golfo, folla-risacca, piazza-imbuto, porta-rubinetto.

Siccome la velocità aerea ha moltiplicato la nostra conoscenza del mondo, la percezione per analogia diventa sempre più naturale per l'uomo. Bisogna dunque sopprimere il come, il quale, il così, il simile a. Meglio ancora, bisogna fondere direttamente l'oggetto coll'immagine che esso evoca, dando l'immagine in iscorcio mediante una sola parola essenziale.

6. Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno stile vivo, che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti. Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzioni, s'impiegheranno i segni della matematica: +--x: = > <, e i segni musicali.

7. Gli scrittori si sono abbandonati finora all'analogia immediata. Hanno paragonato per esempio l'animale all'uomo o ad un altro animale, il che equivale ancora, press'a poco, a una specie di fotografia. Hanno paragonato per esempio un fox-terrier a un piccolissimo puro-sangue. Altri, più avanzati, potrebbero paragonare quello stesso fox-terrier trepidante, a una piccola macchina Morse. Io lo paragono, invece, a un'acqua ribollente. V'è in ciò una gradazione di analogie sempre più vaste, vi sono dei rapporti sempre più profondi e solidi, quantunque lontanissimi.

L'analogia non è altro che l'amore profondo che collega le cose distanti, apparentemente diverse ed ostili. Solo per mezzo di analogie vastissime uno stile orchestrale, ad un tempo policromo, polifonico e polimorfo, può abbracciare la vita della materia.

Quando, nella mia Battaglia di Tripoli, ho paragonato una trincea irta di baionette a un'orchestra, una mitragliatrice a una donna fatale, ho introdotto intuitivamente una gran parte dell'universo in un breve episodio di battaglia africana.

Le immagini non sono fiori da scegliere e da cogliere con parsimonia, come diceva Voltaire. Esse costituiscono il sangue stesso della poesia. La poesia deve essere un seguito ininterrotto d'immagini nuove, senza di che non è altro che anemia e clorosi.

Quanto più le immagini contengono rapporti vasti, tanto più a lungo esse conservano la loro forza di stupefazione. Bisogna - dicono - risparmiare la meraviglia del lettore. Eh! via! Curiamoci, piuttosto, della fatale corrosione del tempo, che distrugge non solo il valore espressivo di un capolavoro, ma anche la sua forza di stupefazione. Le nostre orecchie troppe volte entusiaste non hanno forse già distrutto Beethoven e Wagner? Bisogna dunque abolire nella lingua ciò che essa contiene in fatto d'immagini stereotipate, di metafore scolorite, e cioè quasi tutto.
8. Non vi sono categorie d'immagini, nobili o grossolane, eleganti o volgari, eccentriche o naturali. L'intuizione che le percepisce non ha né preferenze né partiti-presi. Lo stile analogico è dunque padrone assoluto di tutta la materia e della sua intensa vita.

9. Per dare i movimenti successivi d'un oggetto bisogna dare la catena delle analogie che esso evoca, ognuna condensata, raccolta in una parola essenziale.
Ecco un esempio espressivo di una catena di analogie ancora mascherate e appesantite dalla sintassi tradizionale.

"Eh sì! voi siete, piccola mitragliatrice, una donna affascinante, e sinistra, e divina, al volante di un'invisibile centocavalli, che rugge con scoppi d'impazienza. Oh! certo, fra poco balzerete nel circuito della morte, verso il capitombolo fracassante o la vittoria!... Volete che io vi faccia dei madrigali pieni di grazia e di colore? A vostra scelta, signora... Voi somigliate, per me, a un tribuno proteso, la cui lingua eloquente, instancabile, colpisce al cuore gli uditori in cerchio, commossi... Siete in questo momento, un trapano onnipotente, che fora in tondo il cranio troppo duro di questa notte ostinata... Siete, anche, un laminatoio, un tornio elettrico, e che altro? Un gran cannello ossidrico che brucia, cesella e fonde a poco a poco le punte metalliche delle ultime stelle!..." (Battaglia di Tripoli.)

In certi casi bisognerà unire le immagini a due a due, come le palle incatenate, che schiantano, nel loro volo tutto un gruppo d'alberi.
Per avviluppare e cogliere tutto ciò che vi è di più fuggevole e di più inafferrabile nella materia, bisogna formare delle strette reti d'immagini o analogie, che verranno lanciate nel mare misterioso dei fenomeni. Salvo la forma a festoni tradizionale, questo periodo del mio Mafarka il futurista è un esempio di una simile fitta rete d'immagini:

"Tutta l'acre dolcezza della gioventù scomparsa gli saliva su per la gola, come dai cortili delle scuole salgono le grida allegre dei fanciulli verso i vecchi maestri affacciati al parapetto delle terrazze da cui si vedono fuggire sul mare i bastimenti...".


Ed ecco ancora tre reti d'immagini:
"Intorno al pozzo della Bumeliana, sotto gli olivi folti, tre cammelli comodamente accovacciati nella sabbia si gargarizzavano dalla contentezza, come vecchie grondaie di pietra, mescolando il ciac-ciac dei loro sputacchi ai tonfi regolari della pompa a vapore che dà da bere alla città. Stridori e dissonanze futuriste, nell'orchestra profonda delle trincee dai pertugi sinuosi e dalle cantine sonore, fra l'andirivieni delle baionette, archi di violini che la rossa bacchetta del tramonto infiamma di entusiasmo E il tramonto-direttore d'orchestra, che con un gesto ampio raccoglie i flauti sparsi degli uccelli negli alberi, e le arpe lamentevoli degli insetti, e lo scricchiolio dei rami, e lo stridio delle pietre. È lui che ferma a un tratto i timpani delle gamelle e dei fucili cozzanti, per lasciar cantare a voce spiegata sull'orchestra degli strumenti in sordina, tutte le stelle dalle vesti d'oro, ritte, aperte le braccia, sulla ribalta del cielo. Ed ecco una gran dama allo spettacolo... Vastamente scollacciato, il deserto infatti mette in mostra il suo seno immenso dalle curve liquefatte tutte verniciate di belletti rosei sotto le gemme crollanti della prodiga notte". (Battaglia di Tripoli.)

10. Siccome ogni specie di ordine è fatalmente un prodotto dell'intelligenza cauta e guardinga, bisogna orchestrare le immagini disponendole secondo un maximum di disordine.
11. Distruggere nella letteratura l'"io", cioè tutta la psicologia. L'uomo completamente avariato dalla biblioteca e dal museo, sottoposto a una logica e ad una saggezza spaventose, non offre assolutamente più interesse alcuno. Dunque, dobbiamo abolirlo nella letteratura, e sostituirlo finalmente colla materia, di cui si deve afferrare l'essenza a colpi d'intuizione, la qual cosa non potranno mai fare i fisici né i chimici.

Sorprendere attraverso gli oggetti in libertà e i motori capricciosi la respirazione, la sensibilità e gl'istinti dei metalli, delle pietre, del legno, ecc. Sostituire la psicologia dell'uomo, ormai esaurita, con l'ossessione lirica della materia.

Guardatevi dal prestare alla materia i sentimenti umani, ma indovinate piuttosto i suoi differenti impulsi direttivi, le sue forze di compressione, di dilatazione, di coesione e di disgregazione, le sue torme di molecole in massa o i suoi turbini di elettroni. Non si tratta di rendere i drammi della materia umanizzata. È la solidità di una lastra d'acciaio, che c'interessa per se stessa cioè l'alleanza incomprensibile e inumana delle sue molecole o dei suoi elettroni, che si oppongono, per esempio, alla penetrazione di un obice. Il calore di un pezzo di ferro o di legno è ormai più appassionante, per noi, del sorriso o delle lagrime di una donna.

Noi vogliamo dare, in letteratura, la vita del motore, nuovo animale istintivo del quale conosceremo l'istinto generale allorché avremo conosciuti gl'istinti delle diverse forze che lo compongono.
Nulla è più interessante, per un poeta futurista, che l'agitarsi della tastiera di un pianoforte meccanico. Il cinematografo ci offre la danza di un oggetto che si divide e si ricompone senza intervento umano. Ci offre anche lo slancio a ritroso di un nuotatore i cui piedi escono dal mare e rimbalzano violentemente sul trampolino. Ci offre infine la corsa d'un uomo a 200 chilometri all'ora. Sono altrettanti movimenti della materia, fuor dalle leggi dell'intelligenza e quindi di una essenza più significativa.

Bisogna inoltre rendere il peso (facoltà di volo) e l'odore (facoltà di sparpagliamento) degli oggetti, cosa che si trascurò di fare, finora, in letteratura. Sforzarsi di rendere per esempio il paesaggio di odori che percepisce un cane. Ascoltare i motori e riprodurre i loro discorsi.
La materia fu sempre contemplata da un io distratto, freddo, troppo preoccupato di se stesso, pieno di pregiudizi di saggezza e di ossessioni umane.

L'uomo tende a insudiciare della sua gioia giovane o del suo dolore vecchio la materia, che possiede un'ammirabile continuità di slancio verso un maggiore ardore, un maggior movimento, una maggiore suddivisione di se stessa. La materia non è né triste né lieta. Essa ha per essenza il coraggio, la volontà e la forza assoluta. Essa appartiene intera al poeta divinatore che saprà liberarsi dalla sintassi tradizionale, pesante, ristretta, attaccata al suolo, senza braccia e senza ali perché è soltanto intelligente. Solo il poeta asintattico e dalle parole slegate potrà penetrare l'essenza della materia e distruggere la sorda ostilità che la separa da noi.

Il periodo latino che ci ha servito finora era un gesto pretenzioso col quale l'intelligenza tracotante e miope si sforzava di domare la vita multiforme e misteriosa della materia. Il periodo latino era dunque nato morto.
Le intuizioni profonde della vita congiunte l'una all'altra, parola per parola, secondo il loro nascere illogico, ci daranno le linee generali di una psicologia intuitiva della materia. Essa si rivelò al mio spirito dall'alto di un aeroplano. Guardando gli oggetti, da un nuovo punto di vista, non più di faccia o per di dietro, ma a picco, cioè di scorcio, io ho potuto spezzare le vecchie pastoie logiche e i fili a piombo della comprensione antica.

Voi tutti che mi avere amato e seguìto fin qui, poeti futuristi, foste come me frenetici costruttori d'immagini e coraggiosi esploratori di analogie. Ma le vostre strette reti di metafore sono disgraziatamente troppo appesantite dal piombo della logica. Io vi consiglio di alleggerirle, perché il vostro gesto immensificato possa lanciarle lontano, spiegate sopra un oceano più vasto.

Noi inventeremo insieme ciò che io chiamo l'immaginazione senza fili. Giungeremo un giorno ad un'arte ancor più essenziale, quando oseremo sopprimere tutti i primi termini delle nostre analogie per non dare più altro che il seguito ininterrotto dei secondi termini. Bisognerà, per questo, rinunciare ad essere compresi. Esser compresi, non è necessario. Noi ne abbiamo fatto a meno, d'altronde, quando esprimevamo frammenti della sensibilità futurista mediante la sintassi tradizionale e intellettiva.

La sintassi era una specie di cifrario astratto che ha servito ai poeti per informare le folle del colore, della musicalità, della plastica e dell'architettura dell'universo. La sintassi era una specie d'interprete o di cicerone monotono. Bisogna sopprimere questo intermediario, perché la letteratura entri direttamente nell'universo e faccia corpo con esso.
Indiscutibilmente la mia opera si distingue nettamente da tutte le altre per la sua spaventosa potenza di analogia. La sua ricchezza inesauribile d'immagini uguaglia quasi il suo disordine di punteggiatura logica. Essa mette capo al primo manifesto futurista, sintesi di una 100 HP lanciata alle più folli velocità terrestri.

Perché servirsi ancora di quattro ruote esasperate che s'annoiano, dal momento che possiamo staccarci dal suolo? Liberazione delle parole, ali spiegate dell'immaginazione, sintesi analogica della terra abbracciata da un solo sguardo e raccolta tutta intera in parole essenziali.

Ci gridano: "La vostra letteratura non sarà bella! Non avremo più la sinfonia verbale, dagli armoniosi dondolii, e dalle cadenze tranquillizzanti!". Ciò è bene inteso! E che fortuna! Noi utilizziamo, invece, tutti i suoni brutali, tutti i gridi espressivi della vita violenta che ci circonda. Facciamo coraggiosamente il "brutto" in letteratura, e uccidiamo dovunque la solennità. Via! non prendete di queste arie da grandi sacerdoti, nell'ascoltarmi! Bisogna sputare ogni giorno sull'Altare dell'Arte! Noi entriamo nei domini sconfinati della libera intuizione. Dopo il verso libero, ecco finalmente le parole in libertà!

Non c'è, in questo, niente di assoluto né di sistematico. Il genio ha raffiche impetuose e torrenti melmosi. Esso impone talvolta delle lentezze analitiche ed esplicative. Nessuno può rinnovare improvvisamente la propria sensibilità. Le cellule morte sono commiste alle vive. L'arte è un bisogno di distruggersi e di sparpagliarsi, grande innaffiatoio di eroismo che inonda il mondo. I microbi - non lo dimenticate - sono necessari alla salute dello stomaco e dell'intestino. Vi è anche una specie di microbi necessaria alla vitalità dell'arte, questo prolungamento della foresta delle nostre vene, che si effonde, fuori dal corpo, nell'infinito dello spazio e del tempo.

Poeti futuristi! Io vi ho insegnato a odiare le biblioteche e i musei, per prepararvi a odiare l'intelligenza, ridestando in voi la divina intuizione, dono caratteristico delle razze latine. Mediante l'intuizione, vinceremo l'ostilità apparentemente irriducibile che separa la nostra carne umana dal metallo dei motori.

Dopo il regno animale, ecco iniziarsi il regno meccanico. Con la conoscenza e l'amicizia della materia, della quale gli scienziati non possono conoscere che le reazioni fisico-chimiche, noi prepariamo la creazione dell'uomo meccanico dalle parti cambiabili. Noi lo libereremo dall'idea della morte, e quindi dalla morte stessa, suprema definizione dell'intelligenza logica.




La poetica dei crepuscolari


Nella storia del Decadentismo italiano si iscrivono due movimenti poetici che diversamente riprendono e superano le esperienze rappresentate dalla poesia pascoliana e dannunziana. Si tratta del gruppo dei crepuscolari e di quello dei futuristi, il primo più riservato e alieno da proclamazioni clamorose della propria novità, il secondo più aggressivo e polemico nella sua risoluta lotta contro il passato e nella propaganda combattiva e fragorosa delle sue vistose innovazioni tecniche e della sua visione moderna della poesia e della vita.
Il termine "crepuscolare" venne usato per la prima volta da un critico, Giuseppe Antonio Borgese , in quanto i crepuscolari appunto gli sembravano rappresentare il crepuscolo della grande giornata di poesia vissuta dalla letteratura italiana fino a quel momento. I crepuscolari elevano a materia della loro poesia la vita quotidiana nei suoi aspetti più umili e banali, togliendo però alle "piccole cose" quel valore simbolico che era proprio del Pascoli.
I crepuscolari svuotano il simbolo della centralità che aveva in Pascoli facendolo diventare scenario di pessimo gusto della realtà che raccontano. Il confronto tra le due realtà è d'obbligo; da una parte il maestro, Pascoli, interprete delle cose, traduttore del linguaggio delle cose e della natura e, dall'altra la scelta dissacrante, consapevole e calcolata della diminuzione del tono, del messaggio, dello spazio, della parola.
Il simbolismo che si fonda sulla tendenza a caricare di valore simbolico gli oggetti (vedi la poesia Lavandare: "l'aratro in mezzo alla maggese" che esprime tutta la solitudine, l'abbandono, la malinconia di chi è lontano dalla persona che ama; la casa che simboleggia il nido , la culla, la madre, simbolo di protezione, di regressione all'infanzia, di continuità ciclica dell'esistenza: vita / morte) lascia spazio alle piccole cose di pessimo gusto, elemento chiave della poetica crepuscolare.
Così il ritmo della vita quotidiana si presenta in tutto il suo grigiore sonnolento, stanco, vuoto di ogni ideale superiore, privo di ogni slancio ed entusiasmo. L'aridità, la sfiducia, la noia, l'incapacità di dare un significato alla vita sono gli stati d'animo più soliti: è un'esistenza malinconica, tra ospedali, suore, organetti, vecchie ville, malati; si respira lo spleen dei giorni di festa, il suono mesto delle campane che scandisce il trascorrere del tempo con i suoi rintocchi.
Al di qua dell'azione, e come tagliati fuori dai moti e dai conflitti reali della storia, i crepuscolari vivono la loro delusione esistenziale e storica di piccoli borghesi in negativo, in una condizione limbale di indecisione e di accidia, tra adesione e negazione della quotidianità.
Diviene così fondamentale l'ironia, come continua consapevolezza della vanità delle illusioni e, insieme, della vacuità della vita. I crepuscolari spesso arrivano, soprattutto con Guido Gozzano, ad un equilibrio difficile tra sorriso ed affetto, tra rimpianto e piacere trasgressivo, fra ironia e abbandono alla banalità. C'è incertezza fra passato e futuro, fra chiusura e apertura.
A tali contenuti corrisponde anche una consapevole rivoluzione formale.
I crepuscolari, infatti, tendono alla riduzione della poesia a prosa, il loro verso tende ad una poesia che si mantenga nell'ambito della prosa. La lingua aulica della tradizione poetica dannunziana si abbassa fino a includere il lessico della banalità, della quotidianità, l' understatement o abbassamento di tono verso l'usuale.
Quel complesso di stati d'animo e di atteggiamenti mentali ,che si è convenuto di definire condizione crepuscolare, giunge alla più autentica cifra artistica nell'opera di Guido Gustavo Gozzano (1883-1916).

Guido Gozzano tra cultura e decadenza
Dopo una così esasperata tensione verso un'esistenza superumana, dopo una ricerca di vite eccezionali e inimitabili, quale è quella che il D'Annunzio cantava e voleva vivere (si ricordino le parole del protagonista de Il Piacere, Andrea Sperelli: "bisogna fare la propria vita come si fa un'opera d'arte" la poesia di Gozzano appare un richiamo alla realtà quotidiana.
Nella sua poesia si afferma per la prima volta l'atteggiamento del poeta disilluso di ogni cosa, sentimentalmente inaridito, ironicamente perplesso di fronte alla mutabilità dei fenomeni della vita, alla retorica, all'attivismo, all'egolatria del dannunzianesimo; sostanza del suo mondo poetico saranno argomenti provinciali e infantili, signorine un po' brutte, cose un po' vecchie,crinoline, ricami, colore rosa; ambiguità dell'amore senza passione, del sentimentalismo senza sentimento e dei profumi senza odori.
Il poeta è malato, ma la sua non è solo una malattia fisica: la vera malattia, dice continuamente Gozzano, è l'irredimibile falsità della scrittura, l'impossibilità di far corrispondere la vita vera alla letteratura (a meno di non cadere nel ridicolo o nell'equivoco dell'estetismo).
Tutta l'opera di Gozzano si forma su questa lucidissima coscienza del distacco fra letteratura e vita, coscienza amara e funebre che si trasforma in rictus
umoristico, in quell'ironia che costituisce il tono primario dei suoi testi. Ed è proprio qui che scatta la distanza e il rifiuto del mito dannunziano: continuare a scrivere, per Gozzano, significa continuare a scrivere nella menzogna della letteratura, continuare a sorriderne, fare poesia sopra l'aridità della poesia, sull'impossibilità di avere una fede.

Gozzano: il poeta delle "piccole cose"
Gozzano riempie la sua poesia di oggetti-merce del presente e di oggetti-ricordo del passato, sottoponendoli alla corrosione ironica o alla sublimazione nostalgica. Gli oggetti che il poeta predilige sono costituiti da cose un tempo vive e poi uscite dal flusso della temporalità, per questo rimaste intatte, come appunto i quadri, il vasellame, i materassi e altro vario antiquariato della celebre soffitta del poema La signorina Felicita ovvero la Felicità .
Ne L'amica di nonna Speranza c'è la descrizione nostalgico-ironica di un salotto del passato e di alcune figure risorgimentali e romantiche che vi si muovono: gli oggetti vi agiscono da consunti depositari dei valori del passato e da potenti evocatori di ricordi infantili, nostalgie e ironie storiche. Fiori e frutti in Gozzano sono così veri da sembrare finti e così finti da sembrare veri. I fiori non odorano perché sono finti e i frutti dai colori sgargianti sono di marmo, finti ma così belli da sembrare veri.
Da una parte Gozzano ricorda elencandoli tutti quegli oggetti che sono costitutivi dell'identità familiare e, dall'altra, li apostrofa come buone cose di pessimo gusto, quasi volesse estraniarsi da tutto ciò che lo circonda.
In La signorina Felicita ovvero la Felicità , storia forse autobiografica di un idillio giovanile ritrovato e vissuto con la memoria adulta rivolta alle cose, alle vicende che potevano essere e non sono state, Gozzano sostituisce all'amore sublime il vagheggiamento di una vita tranquilla insieme a una ragazza di provincia, casalinga e "quasi brutta", ma rassicurante nella sua modesta semplicità. L'azzurro dei suoi occhi, che nella terminologia classica sono "iridi", non è più paragonato a quello del mare o del cielo ma il loro azzurro è "di stoviglia" (lessico della banalità). L'immagine femminile è quella tipica dell'universo poetico gozzaniano: una donna semplice, "quasi brutta", dedita alle attività domestiche.

III.
Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga.

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d'efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l'iridi sincere
azzurre d'un azzurro di stoviglia.

Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d'ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Oltre al distacco ironico della tradizione dell'amore romantico, è avvertibile la tematica del desiderio che si consuma e si sperde in immagini di evanescenza.

Conclusioni

La stagione dei grandi letterati di fine Ottocento e inizi Novecento sembra essere ormai finita, la poesia incomincia ad essere relegata in un indefinito margine di importanza e i poeti si domandano quale sia il loro ruolo in questo nuovo contesto. Il confronto con i grandi del passato e con le epoche gloriose getta un senso di sconforto e impotenza, unitamente al rimpianto di non essere nati prima, in un tempo in cui la Poesia era tenuta ancora in grande considerazione. Cosa possono cantare i poeti che non sia già stato cantato?
Quale grande ruolo e quale grande voce possono avere, se in realtà essi stessi per primi si sentono piccoli, minuti e in grado di emettere solo fievoli lamenti (o acute risate che nessuno vuole ascoltare)?
Lasciamo la figura del superuomo dannunziana per cercare, come unica soluzione, il ripiegamento su se stessi, nel proprio piccolo mondo, facendo attenzione anche a quelle "piccole cose" che la grande poesia del passato ha sempre trascurato. Tutte le certezze di un tempo si sfaldano in modo inevitabile e il poeta inizia a guardare alla realtà con occhio quasi indifferente, malinconico e a volte ironico, teso a cogliere le sfumature quotidiane di una società in crisi. È il crepuscolo della grande Poesia che ripiega su più dimessi toni, ma contemporaneamente l'aurora di una nuova stagione letteraria.
Mentre la modernità inizia concretamente ad entrare nella vita dell'individuo, è necessario comprendere e metabolizzare nella propria intima essenza l'entità dei grandi cambiamenti innestati dallo sviluppo economico, tecnologico e industriale.
I crepuscolari si approcciano alla realtà con uno sguardo quasi disorientato e avvertono il bisogno di rinchiudersi in un cantuccio riparato, pur continuando ad occhieggiare al mondo che prosegue la sua inarrestabile corsa verso il progresso. Essi si accorgono sventuratamente che il poeta ha ormai perduto la sua aureola e si adattano alla nuova condizione, ognuno seguendo la propria disposizione d'animo.
Con il suo nuovo modo di poetare, Gozzano ha dato inizio alla poesia del Novecento, vi regna il caos degli oggetti, il vocabolario di cose di poco conto.
Si pensi al noto incipit de L'amica di nonna Speranza , il quale non solo costituisce una prova evidente dell'uso di un lessico quotidiano, ma testimonia anche, insieme a tutta la lirica, l'introduzione della narrazione e del parlato nella scrittura poetica. I versi gozzaniani vengono, dunque, contaminati dalla prosa attraverso il linguaggio colloquiale, il racconto, il dialogo.





Luigi Pirandello
Lettera alla sorella: la vita come «enorme pupazzata»



È una lettera alla sorella Lina, scritta il 31 ottobre 1886. Essa presenta i seguenti aspetti di estremo interesse:
1) la vita è priva di senso, 2) scrivere e studiare è analogamente insensato ma serve come compensazione
della frustrazione derivante da tale scoperta, 3) gli ideali che aiutano a vivere sono degli autoinganni
o delle illusioni mistificanti, 4) essi sono tuttavia necessari per sopravvivere. Sono concetti che
vent’anni dopo, in una lettera a Filippo Surace, saranno ripresi in questi termini: «Chi ha capito il giuoco,
non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi, non può prendere né gusto né piacere
alla vita. Così è».

La meditazione è l’abisso nero, popolato di foschi fantasmi, custodito dallo sconforto disperato. Un raggio di luce non vi penetra mai, e il desiderio di averlo sprofonda sempre di più nelle tenebre dense.
[...] Noi siamo come i poveri ragni, che per vivere han bisogno d’intessersi in un cantuccio la loro tela sottile, noi siamo come le povere lumache che per vivere han bisogno di portare a dosso il loro guscio fragile, o come i poveri molluschi che vogliono tutti la loro conchiglia in fondo al mare.
Siamo ragni, lumache e molluschi di una razza più nobile – passi pure – non vorremmo una ragnatela,un guscio, una conchiglia – passi pure – ma un piccolo mondo sì, e per vivere in esso e per vivere di esso. Un ideale, un sentimento, una abitudine, una occupazione – ecco il piccolo mondo, ecco il guscio di questo lumacone o uomo – come lo chiamano. Senza questo è impossibile la vita. Quando tu riesci a non avere più un ideale, perché osservando la vita sembra un’enorme pupazzata, senza nesso,senza spiegazione mai; quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non stimare, a
non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò l’abitudine, che non trovi, e l’occupazione, che sdegni – quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza cuore – allora tu non saprai che fare: sarai un viandante senza casa, un uccello senza nido.
Io sono così.[...] Io scrivo e studio per dimenticare me stesso – per distormi dalla disperazione.



LA LIRICA DEL PRIMO NOVECENTO : DUE LINEE DI TENDENZA


Gran parte delle esperienze poetiche del primo' 900 si interrompono bruscamente a causa della Grande guerra , che rappresenta dunque un forte spartiacque addirittura sul piano biografico : crepuscolari, futuristi, lasciano così il passo ad altre esperienze .
L'orrore della guerra appena finita induce molti scrittori a prendere le distanze dalle magniloquenti e violente manifestazioni poetiche degli anni Dieci ( Marinetti, D'Annunzio) per orientarsi invece verso una meditazione interiore sugli ultimi accadimenti e per una riflessione morale sulla condizione umana. Tutto ciò si ripercuote ovviamente anche sul piano formale ,abbassamento dei toni , forme e modelli letterari più sobri; si sente insomma la necessità di guardare indietro e di riconnettersi ai grandi modelli ottocenteschi come Leopardi e Manzoni .
Sul piano letterario individuiamo due linee di tendenza che , seppure incrociate , sono facilmente distinguibili : 1) linea antinovecentista , che interpreta lo spirito di reazione in modo più radicale e che recupera i moduli del classicismo , dell'800 e del romanticismo( es. Saba) ; 2) linea novecentista , abbracciata da poeti che con apporti assai originali portano avanti e sviluppano le tendenze del simbolismo e delle avanguardie ( Ungaretti , Montale) ; e poi abbiamo una terza linea di tendenza rappresentata dall'Ermetismo ( influenzato anche dal surrealismo).




GIUSEPPE UNGARETTI
Commiato ( 1916)


Gentile
Ettore Serra
poesia
è il mondo l'umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento
Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso

dal Sentimento del tempo:
Lago luna alba notte (1927)


Gracili, arbusti, ciglia
Di celato bisbiglio...
Impallidito livore rovina...
Un uomo, solo, passa
Col suo sgomento muto...
Conca lucente,
Trasporti alla foce del sole!
Torni ricolma di riflessi, anima,
E ritrovi ridente
L'oscuro...
Tempo, fuggitivo tremito...








Eugenio Montale
da Ossi di seppia :



Spesso il male di vivere ho incontrato (1925)


Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi; fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Da Le Occasioni:
Ti libero la fronte dai ghiaccioli ( 1939)


Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l'alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.

Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l'ombra nera, s'ostina in cielo un sole
freddoloso; e l'altre ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.


da La bufera e altro:
Gli orecchini ( 1940)


Non serba ombra di voli il nerofumo
della spera. (E del tuo non è piú traccia.)
È passata la spugna che i barlumi
indifesi dal cerchio d'oro scaccia.
Le tue pietre, i coralli, il forte imperio
che ti rapisce vi cercavo; fuggo
l'iddia che non s'incarna, i desiderî
porto fin che al tuo lampo non si struggono.
Ronzano èlitre fuori, ronza il folle
mortorio e sa che due vite non contano.
Nella cornice tornano le molli
meduse della sera. La tua impronta
verrà di giú: dove ai tuoi lobi squallide
mani, travolte, fermano i coralli.

I. Finisterre


La frangia dei capelli che ti vela (1941)


La frangia dei capelli che ti vela
la fronte puerile, tu distrarla
con la mano non devi. Anch'essa parla
di te, sulla mia strada è tutto il cielo,
la sola luce con le giade ch'ài
accerchiate sul polso, ne tumulto
del sonno la cortina che gl'indulti
tuoi distendono, l'ala onte tu vai,
trasmigratrice Artemide ed illesa,
tra le guerre dei nati-morti; e s'ora
d'aeree lanugini s'infiora
quel fondo, a marezzarlo sei tu, scesa
d'un balzo, e irrequieta la tua fronte
si confonde con l'alba, la nasconde.





IL ROMANZO DEL 900



Il Romanzo del primo Novecento risulta un genere decisamente nuovo, caratterizzato dalla sperimentazione di moduli espressivi atti a rendere le inquietudini e la sensibilità di un uomo travolto da una crisi totale e privato dalla possibilità sia di essere che di conoscere oggettivamente la realtà. Questo romanzo in cui eroi sono personaggi disorientati e scissi, costituisce il risultato di un lungo processo di trasformazione del modello ottocentesco, infatti la narrativa aveva puntato sulla raffigurazione di psicologie complesse e fuggenti, privilegiando una prospettiva soggettivistica.
Nel Novecento letterario, l'attenzione dello scrittore si sposta dall'esterno all'interno. Al centro della narrazione non vi è più il rapporto tra il personaggio e l'ambiente, ma lo scavo interiore che mette a nudo tutte le sfaccettature del sentimento. Inoltre, l'artista cerca di ricostruire il mistero (che nell'800 si era completamente perso) attraverso il linguaggio, che si rende espressione delle misteriose irradiazioni degli oggetti, ed è vissuto come dramma, come coscienza della disntegrazione di sè.
La nascita del romanzo moderno va ricondotta ad una serie di importanti trasformazioni che all'inizio del secolo hanno investito l'economia, la società, il pensiero scientifico e filosofico e, fra queste, un posto particolare può essere riservato all'avvento del cinema, nel quale l'uomo moderno (e in particolare l'intellettuale) trova un nuovo mezzo per esprimere se stesso in maniera spontanea e per descrivere i suoi sogni e le sue esperienze personali. Il cinematografo è anche il modo per sottolineare la nuova concezione del tempo, formulata da Henri Bergson, poichè gli istanti non si susseguono tutti uno uguale all'altro, ma si dilatano o si restringono a seconda della volontà del soggetto. Inoltre attraverso la macchina da presa è possibile percepire le diversità dei punti di vista che, a mano a mano, si possono assumere comunicando così una visione del mondo (e anche delle stesse persone) che non è più lineare, ordinata e uguale per tutti.
In effetti, contemporaneamente gli sviluppi della scienza mettono in crisi l'immagine tradizionale di un mondo in cui i fenomeni possano essere spiegati secondo un preciso ed univoco rapporto di causa ed effetto. Su un altro versante gli studi della psicoanalisi portano alla scoperta dell'inconscio ovvero di quella parte dell'Io che si colloca al di sotto del piano della coscienza e che influenza in modo decisivo il suo comportamento.
Il romanzo novecentesco si sviluppa principalmente attorno ad alcuni nuovi motivi, come ad esempio, l'epopea della memoria in Marcel Proust, il magma primario dell'esperienza colto attraverso il linguaggio in James Joyce e l'indagine psicoanalitica in Italo Svevo .
Il PERSONAGGIO del romanzo novecentesco si definisce soprattutto per le sensazioni e i pensieri e non è mai uguale a se stesso, ma muta secondo il tempo, alle situazioni in cui si trova e soprattutto in relazione alla molteplicità dei punti di vista attraverso i quali viene presentato. Compare così la figura dell'inetto (vedi Svevo), un individuo caratterizzato da una vera e propria sfasatura tra il piano della coscienza e quello dell'azione: elabora mille progetti, si propone di assumere determinati comportamenti ma non riesce a tradurre in atto nessuno dei suoi propositi.Il TEMPO non scorre più in un'unica direzione, in quanto i fatti non vengono narrati secondo il loro ordine cronologico. Si assiste ad un continuo trapassare dal presente al passato, da un ricordo ad un altro; gli episodi non sono sempre vicini nel tempo e non hanno tutti la stessa importanza. Nasce un rapporto ambiguo tra passato e presente in cui i due piani temporali non si succedono l'uno all'altro ma coesistono in una specie di "tempo interiore". Si viene inoltre a creare una sfasatura fra tempo della storia e tempo personale, infatti sensazioni, ricordi, pensieri, in pochi attimi si accavallano nella mente del personaggio, vengono analizzati e descritti a rallentatore, con una forza analitica che arresta il flusso del tempo.Anche lo SPAZIO (il mondo esterno, il paesaggio e l'ambiente sociale) non ha più una sua autonomia, ma esiste in funzione del personaggio che lo guarda, perciò assume una luce diversa a seconda delle angolazioni psicologiche da cui l'io narrante lo contempla.La FOCALIZZAZIONE è prevalentemente interna. I fatti sono introdotti attraverso le percezioni e i pensieri del protagonista, grazie all'adozione della cosidetta della "restrizione di campo": il lettore è informato soltanto di ciò che ricade nell'ottica del personaggio o che accade nella sua mente. Inoltre il punto di vista del personaggio è cangiante.Sul piano della TECNICA NARRATIVA il romanzo d'analisi è caratterizzato da profonde innovazioni che riguardano sia la struttura sia le scelte espressive, con diverse sperimentazioni a seconda degli autori, ma che generalmente cercano di esprimere il "flusso dei pensieri " dei personaggi. Alla formazione e alla disorganicità del mondo quale appare agli occhi dello scrittore corrisponde una struttura compositiva volutamente disarticolata, che si frantuma in una miriade di direzioni che rendono effettivamente difficile seguire la vicenda ed intendere ciò di cui si parla.

C'è una sostanziale differenza tra la concezione e la tecnica espressiva del romanzo ottocentesco rispetto a quello del '900. Il romanzo dell'800 nasce come espressione di una società e di una cultura dai valori ben definiti, affidandosi a personaggi dall'identità precisa e collocando le vicende secondo un preciso ordine temporale e causale. Si tratta di una narrazione di fatti, di ambienti sociali individuati e descritti con esattezza. Fu il romanzo decadente ad introdurre un'analisi più attenta dei sentimenti interiori.

Nel '900 invece la mutata situazione culturale (la consapevolezza dei limiti della conoscenza scientifica e di una rappresentazione razionale ed oggettiva della realtà, la relatività del concetto tradizionale di Tempo e Spazio, l'indagine sul mondo dell'inconscio) e sociale (la vita in una civiltà industriale di massa) genera un nuovo tipo di romanzo che si può genericamente definire come psicologico. Presenta personaggi inquieti, in cerca di un'identità precisa, nei quali il tempo è puramente interiore ed i fatti sono collegati secondo la soggettiva coscienza di ciascuno.

In genere si tratta di romanzi in forma autobiografica, in cui il protagonista esamina se stesso ed i suoi atteggiamenti interiori. Tale romanzo è proprio di tutta la narrativa europea, poiché esprime bene la comune sensibilità esistenziale. Alcuni lo definiscono "il romanzo della crisi", espressione della realtà indecifrabile di quest'epoca, smarrita e senza certezze. Pirandello, Svevo, Mann (1875-1955), Kafka (1883-1924) esprimono un'analoga concezione della vita, tormentata ed inquieta, che anela a trovare valori solidi, ma che non giunge a conclusioni definitive, rimanendo aperta a tante possibilità.

Accanto a loro va ricordato il francese Proust (1871-1922) . Egli con l'opera monumentale "La ricerca del tempo perduto" recupera sul filo della memoria gli eventi della sua vita associandoli liberamente ed inserendoli nella storia collettiva; il tempo rivive proprio nella dimensione della coscienza. Anche l'inglese Joyce (che fu per alcuni anni in Italia ed apprezzò Svevo) scrisse un libro, "Ulisse", in cui ricostruisce la giornata di un uomo che associa in totale libertà tutte le sue esperienze.

Nasce una nuova tecnica espressiva, detta "monologo interiore", che unisce le idee non secondo i loro rapporti causali, ma secondo la soggettiva intenzione del personaggio. Si tratta quindi di un romanzo non già di fatti, cose, eventi, ma di riflessione, di analisi minuziosa, quasi ossessiva, degli stati d'animo, dei conflitti interiori. Se l'individuo romantico è l'uomo in contrasto con la realtà storica, se l'eroe decadente è l'esteta, il protagonista di questi romanzi è l'inetto, un personaggio quasi incapace di vivere, alienato, costretto in un ruolo sociale esteriore in totale contrasto con la sua vita interiore, da cui vorrebbe liberarsi, ma cui si sente indissolubilmente legato.

De Benedetti: "la narrativa moderna mette in crisi la possibilità di leggere i romanzi standosene in poltrona, tranquilli, non sono romanzi di evasione, sono inquietanti perché rappresentano lo sgretolamento dell'uomo borghese, della concezione unitaria e coerente che l'uomo ha di sé."

IL TEMPO:
Romanzo dell'800:

Logica consequenziale dei fatti narrati
Struttura cronologica, con digressioni ordinate
Tecniche narrative che rispettano la scansione temporale in un prima e in un poi
Romanzo del '900:
Particolari amplificati
Tempo soggettivizzato
Struttura tematica, non cronologica, continuo passaggio di passato e presente
Nuove tecniche narrative che dissolvono la struttura cronologica (flusso)

IL PERSONAGGIO :
Romanzo dell'800:

Personaggio realistico
Garante della unità
Portatore di un sistema di valori (più o meno condiviso-condivisibile)
Il personaggio agisce
Romanzo del '900:
Dissoluzione del personaggio
Ha vita soprattutto interiore
Antieroe: uomo senza qualità, identità, salute
Il personaggio subisce non agisce

LA TRAMA :
Romanzo dell'800:

È fondamentale
Fabula lineare e cronologica
Il romanzo è costruito sulla fabula e su rapporti lineari di causa/effetto
Valorizzazione dell'atto eroico
Romanzo del '900:
E' insignificante
Impossibile riassumere una fabula
Importanti sono gli stati d'animo, le sensazioni, i pensieri
Valorizzazione del banale e del quotidiano

IL NARRATORE:
Romanzo dell'Ottocento:

Narratore in terza persona
Narratore regista onnisciente
È garante della verosimiglianza
Nel Naturalismo si comporta come uno scienziato
Romanzo del Novecento:
Narratore in prima persona
Punto di vista che non garantisce al lettore la veridicità di ciò che legge

IL FINE :
Romanzo dell'Ottocento:

Educare Manzoni
denuncia sociale Naturalismo
proporre un modello umano, l'eroe decadente D'Annunzio
Romanzo del Novecento:
L'arte è autonoma dalla morale, scandaglia le coscienze
Il romanzo del Novecento è la trascrizione della coscienza della crisi
Propone l'antieroe
La grande cultura precipita in uno smarrimento profondo, non c'è più Dio al centro, ma l'uomo, che però è debole, insicuro, in conoscibile

L'uomo del '900 non si accontenta + del "come", ma vuole sapere il "perché". A queste domande però non sa dare risposta e si smarrisce
Va in crisi l'immagine vincente dell'uomo che ci proviene dalla storia: l'uomo che è artefice della sua fortuna, l'uomo borghese che si costruisce con le sue mani ed è soddisfatto di sè
La grande cultura precipita in uno smarrimento profondo, non c'è più Dio al centro, ma l'uomo, che però è debole, insicuro, inconoscibile
L'uomo del '900 non si accontenta + del "come", ma vuole sapere il "perché". A queste domande però non sa dare risposta e si smarrisce
Va in crisi l'immagine vincente dell'uomo che ci proviene dalla storia: l'uomo che è artefice della sua fortuna, l'uomo borghese che si costruisce con le sue mani ed è soddisfatto di sé

TITOLI DEI MAGGIORI ROMANZI

Il mestiere di vivere ( Pavese)
L'uomo senza qualità ( Musil)
Un inetto ( Svevo)
Senilità ( Svevo)
Uno, nessuno, centomila (Pirandello)
Il male oscuro (Berto)
Cuore di tenebra ( Conrad)
La Metamorfosi ( Kafka)
Memorie di un malato di nervi (Schreber)
Solitudine (Català)
Alla ricerca del tempo perduto ( Proust) ....... e molti altri...





Intervista a Montale ( 1951 )



"Gli avvenimenti che fra le due guerre mondiali hanno straziato l'umanità li ho vissuti standomene seduto e osservandoli"

Mi duole di non saper scrivere qualche pagina sulla mia poesia. Altra volta mi ci son provato, ma con risultati molto dubbi. Un mio vecchio scritto, uscito sul primo numero della "Rassegna d'Italia" del Flora, portava questo titolo: Intenzioni; ma ho dovuto poi convincermi di non essere affatto un poeta intenzionale, un poeta che parte da una "posizione estetica" già fissata in anticipo. O meglio, una convinzione l'ho avuta: che la poesia, oggi, sia la vetta, il germoglio di un fatto di cultura, e non repertorio di notizie, aggiornamento di un uomo che si ritiene à la page. Da questo sentimento, e da simili intenzioni,sono nate in me, nel corso di un trentennio, circa centocinquanta poesie che ho raccolto in tre volumi: Ossi di seppia (1925), Le Occasioni (1939) e La bufera e altro (1956): quest'ultimo premiato a Valdagno nello stesso anno. L'argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quell'avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio. Non sono stato indifferente a quanto è accaduto negli ultimi trent'anni; ma non posso dire che se i fatti fossero stati diversi anche la mia poesia avrebbe avuto un volto totalmente diverso. Un artista porta in sé un particolare atteggiamento di fronte alla vita e una certa attitudine formale a interpretarla secondo schemi che gli sono propri.

Gli avvenimenti esterni sono sempre più o meno preveduti dall'artista; ma nel momento in cui essi avvengono cessano, in qualche modo, di essere interessanti. Fra questi avvenimenti che oso dire esterni c'è stato, e preminente per un italiano della mia generazione, il fascismo. Io non sono stato fascista e non ho cantato il fascismo; ma neppure ho scritto poesie in cui quella pseudo rivoluzione apparisse osteggiata. Certo, sarebbe stato impossibile pubblicare poesie ostili al regime d'allora; ma il fatto è che non mi sarei provato neppure il rischio fosse stato minimo o nullo. Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia. Non nego che il fascismo dapprima, guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia esistevano in me ragioni di infelicità che andavano molto al di al di fuori di questi fenomeni. Ritengo si tratti di un inadattamento, di maladjustement psicologico e morale che è proprio a tutte le nature a sfondo introspettivo, cioè a tutte le nature poetiche. Coloro per i quali l'arte è un prodotto delle condizioni ambientali e sociali dell'artista potranno obiettare: il male è che vi siete estraniato dal vostro tempo; dovevate optare per l'una o per l'altra delle parti in conflitto. Mutando o migliorando la società si curano anche gli individui; nella società ideale non esisteranno più scompensi o inadattamenti ma ognuno si sentirà perfettamente a suo posto; e l'artista sarà un uomo come un altro che avrà in più il dono del canto, l'attitudine a scoprire e a creare la bellezza. Rispondo che io ho optato come uomo; ma come poeta ho sentito subito che il combattimento avveniva su un altro fronte, nel quale poco contavano i grossi avvenimenti che si stavano svolgendo. L'ipotesi di una società futura migliore della presente non è punto disprezzabile, ma è un'ipotesi economica-politica che non autorizza illazioni d'ordine estetico, se non in quanto diventi mito. Tuttavia un mito non può essere obbligatorio. Sono disposto a lavorare per un mondo migliore; ho sempre lavorato in questo senso; credo persino che lavorare in questo senso sia il dovere primario di ogni uomo degno del nome di uomo. Ma credo altresì che non sono possibili previsioni sul posto che occuperà l'arte in una società migliore della nostra.

Platone bandiva i poeti dalla Repubblica; in certi paesi di nostra conoscenza sono banditi i poeti che si occupano dei fatti loro (cioè della poesia) anzichè dei fatti collettivi della loro società. In un mondo unificato dalla tecnica (e dal prevalere di una ideologia) io non credo che i poeti " individualisti " potrebbero costituire un pericolo per lo Stato o il Superstato che li ospiti (o li tolleri).È possibile concepire un mondo in cui il benessere e la normalità dei più lasci libero sfogo all'inadattamento e allo scompenso di infime minoranze. In ogni modo questa ottimistica prospettiva lascia aperto il dissidio fra l'individuo la società. È altrettanto possibile l'ipotesi che il dissidio sia risolto manu militari, sopprimendo l'individuo inadattabile. Quello che appare invece improbabile e indimostrabile è l'automatico - o rapido - avvento di una età dell'oro (nelle arti) non appena sia mutata la struttura sociale.
Dopo questa premessa posso dirvi, in risposta alla vostra domanda, che io gli avvenimenti che fra le due guerre mondiali hanno straziato l'umanità li ho vissuti standomene seduto e osservandoli. Non avevo altro da fare. Nel mio libriccino Finisterre (e basta il titolo a dimostrano) occupa tutto lo sfondo anche l'ultima grande guerra, ma non più che di riflesso. Nondimeno la mia reazione era tale che il libro sarebbe stato impubblicabile in Italia. La stampai a Lugano nel 1943. La sola epigrafe iniziale sarebbe stato fumo agli occhi dei censori fascisti . Essa dice: "Les princes (cioè i dittatori) n'ont point d'yeux pour voir ces grandes merveilles; leurs mains ne servent plus qù à nous persécuter... " (1). Sono versi di un uomo che di stragi e di lotte s'intendeva: Agrippa d'Aubigné. In definitiva, fascismo e guerra dettero al mio isolamento quell'alibi di cui esso va forse bisogno. La mia poesia di quel tempo non poteva che farsi più chiusa, più concentrata (non dico più oscura). Dopo la liberazione ho scritto poesie di ispirazione più immediata che per certi lati sembrano un ritorno all'impressionismo degli Ossi di seppia, ma attraverso il filtro di un più cauto controllo stilistico. Non vi mancano accenni a cose e fatti d'oggi. In ogni modo sarebbe impossibile pensarle scritte dieci anni fa. E perciò, a parte il loro valore, che non posso giudicare, debbo concludere che mi sento perfettamente a posto col cosiddetto "spirito del nostro tempo". Ho scritto molto di critica e dal 1948 sono redattore del "Corriere della Sera". Prima - dal 1929 al 1938 - ho diretto il Gabinetto Viesseux di Firenze. Ne sono stato allontanato per insufficienze politiche. La critica ha fatto quasi sempre buon viso ai miei libri, che hanno avuto (almeno o i primi due) molte edizioni. Alcune mie poesie, tradotte, hanno fatto il giro del mondo. Non saprei spiegare come la poesia nasce in me: so solamente che ogni poesia è preceduta da una lunga e oscura gestazione, nella quale però non è contenuto nulla di prevedibile; né l'argomento, né il titolo, né l'ampiezza dello sviluppo. In alcuni casi ho l'impressione che due o tre poesie diverse, "precipitando" si siano fuse insieme. Finito il periodo dell'incubazione scrivo con molta rapidità e con pochi ritocchi. A cose fatte leggo i critici e scopro le mie intenzioni. Talora mi accade di non poter riconoscerle per nulla; altre volte imparo a ravvisare qualcosa di me che non sospettavo affatto. A questi critici manifesto qui la mia riconoscenza.: non li conosco tutti e a pochi ho scritto per ringraziarli. Non ne cito i nomi in questa sede per non offendere gli esclusi: meritevoli anch'essi (ma a diverso titolo) di stima e gratitudine. Per la cronaca sono nato a Genova il Columbus Day (12 ottobre 1896).






 
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